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10 Set

Il colpevole

not for fashion victim enrica alessi
not for fashion victim enrica alessi
 
C
assandra se n’è andata da cinque minuti, ho appena ripreso a leggere e trovo una sua chiamata sul cellulare.
Cosa può essere successo mentre ero in bagno? Afferro il telefono, clicco sul nome e lo avvicino all’orecchio: suona.
“Tutto bene?” chiedo preoccupata.
“Sì, ho dimenticato di dirti una cosa…”
“Ti rendi conto che stai continuando a interrompere la lettura stimolante che mi hai imposto, sì?” chiedo ironica.
Mi sembra di vederla: alza gli occhi al cielo per mostrare la sua frustrazione al Padre Eterno.
“Sì, lo so, ma devo dirti una cosa.”
“Bene, era giusto per chiarire: ti ascolto.”
concludo buttando il libro sul divano.
“Dobbiamo scegliere il tuo vestito.”
Era meglio leggere.
“Ma come? Avevi detto che era uno scherzo… che mi avevi portato all’atelier per il tuo abito, non per il mio…” ribatto.
“Infatti, per te andremo da un’altra parte.”
Ho paura di sapere dove. E seppure continui a sentire il desiderio di riporre fiducia nel genere umano e sia disposta ad assecondarla per il ruolo da testimone che mi ha assegnato, credo che la faccenda del colore dell’abito vada ribadita, una volta per tutte.
“Qualsiasi posto tu abbia scelto per me va benissimo, ma di rosa pallido non mi ci vesto, che sia chiaro.”
“Il rosa pallido è chiaro.” precisa lei.
Ora è la mia frustrazione a farmi alzare gli occhi al cielo.
“Senti Cassandra: il rosa non mi piace, non è nelle mie corde, non mi ci vedo, non lo sopporto, non me lo metto!”
“Perché ti ostini?”
“Non sono io che mi ostino, sei tu che insisti.”
“Okay, okay… Magari pensiamoci, poi decidiamo.”
Ancora?
“Ci ho già pensato e ho già deciso: è no.”
“Posso farti cambiare idea.”
“Non credo…”
“Sicura?”
“Sicura. A ogni modo, dove andiamo?” chiedo sfinita.
Lo strillo di felicità che le sfugge — probabilmente provocato dall’eccesso di euforia che ha messo insieme la sua mente perversa: pensando che mi sia arresa — mi perfora un timpano.
D’istinto allontano l’orecchio dal telefono nella speranza di salvare il salvabile, e appena dall’altra parte sento il silenzio, lo avvicino di nuovo.
Non ho la forza di contraddirla. Faccio finta di niente e ripeto la domanda:
“Dove mi porti?”
“Nel mio negozio.”
Tutto sommato, il rosa non fa poi così schifo.
“Quando?”
“Sapevo che ti sarebbe piaciuto.”
Continuo a immaginarla, è più forte di me:
ha lasciato il volante per farsi un applauso.
“Ho preso appuntamento venerdì a pausa pranzo: avremo il negozio tutto per noi.”
Non stiamo parlando dell’atelier della sposa, ma della boutique più bella della città, e anche se ancora non so chi pagherà questo abito, l’idea sembra allettante. Se non fosse che venerdì ho appuntamento a casa di Jafar.
“Venerdì non posso.” mormoro.
“Perché?”
“Mercoledì è il compleanno di Luca, venerdì Mila ha organizzato una cena a Milano per festeggiare e ha invitato anche me.”
“Wow!”
Wow un accidenti. Mica se lo immagina che questa cena è una trappola e che il suo redazionale rischia di saltare.
O forse sì.
“Melissa…”
La determinazione con cui pronuncia il mio nome, mi fa capire che sta per dire qualcosa di importante e probabilmente so già di cosa si tratta: deglutisco.
“Devi indagare. Devi scoprire se Mila ha intenzione di pubblicare il redazionale…”
“Ma sarà una cena di famiglia, non posso andare da lei e parlarle di lavoro.”
“Non puoi farmi un favore?”
Favore? Se la foto non esce non è un favore.
“Ti prego…”
Ci mancava giusto la sua vocina a farmi sentire peggio, non mi resta che mentire: “E va bene…”
“Grazie!” esclama commossa.
“Ora posso continuare a leggere?”
“No aspetta… non vuoi che ti aiuti a scegliere il look per la serata?”
Dopo la gonna poncho? Piuttosto la morte.
“No grazie. So già cosa mettermi.”
“E cosa avresti scelto?”
Nonostante il suo tono vagamente insolente mi infastidisca, questa volta — in realtà è la prima — sono certa che non avrà nulla da ridire, al contrario: potrei anche sbalordirla.
“Non te lo chiedo per il piacere di impicciarmi, ma per salvarti la reputazione, è pur sempre la direttrice di Grazia che ti invita a cena…”
“Ed è proprio per questa ragione che ho scelto l’abito a longuette sui toni del blu, scintillante e fiabesco di Enrico che abbiamo comprato insieme, e che non ho ancora sfoggiato.”
“Oh sì!” esclama. “Bravissima.”
“Vedi? Continui a non fidarti e invece dovresti… il mio stile discutibile appartiene al passato ormai…”
Rimango con l’orecchio attaccato al telefono aspettando che confermi la mia versione, ma non dice nulla. Credo che tradurrò il suo silenzio come un assenso.
“Una rondine non fa primavera.”
Ho tradotto malissimo.
“Quindi, quando vogliamo scegliere il tuo abito da testimone?”
Sono sempre più convinta che il problema non sia più il mio stile, ma la sua necessità di prendersi cura di me, sempre e comunque, e in fondo, mi fa piacere.
“Sabato?” suggerisco.
“Sabato è perfetto.”
E ora, dopo essere giunta alla fine del sesto capitolo, capisco perché Cassandra si ostina con questo rosa pallido. C’era da immaginarselo che dietro il mio incubo si nasconde la mano della sua adorata scrittrice. È solo colpa di Enrica se anch’io finirò per conciarmi come un Mon Cherie. Ma a questo penserò sabato, oggi è solo martedì e ho ancora un po’ di tempo per deviare la traiettoria di un destino che sembra già deciso. Terrò buono il suo consiglio: non mi fascerò la testa prima di romperla e mi occuperò di ciò che invece è già rotto: la mia macchina.
Sto uscendo di casa dopo aver salutato genitori e prole, quando dalla borsa che dondola sulla mia spalla, sento il trillo del telefono. Leggo il nome: rompere, rotto… anche lei rompe.
“Cristina!” esordisco con gentilezza forzata.
“Melissa! Come stai? I cuccioli?”
“Stiamo bene grazie, e tu?”
“Benissimo. Non ti disturbo, vero?”
Una domanda di riserva?
“Ti rubo giusto un minuto: mio cugino vuole farti assaggiare il menù.”
Non so dire se sia una buona o una cattiva notizia. D’istinto, la mia mente suggerisce un elenco di casistiche che mi si potrebbero presentare:
1. Il menù farà schifo e non saprò come dirglielo.
2. Il menù sarà troppo pesante e non saprò come dirglielo.
3. Il menù è gratis, non posso avere sempre l’ultima parola.
La terza opzione è la mia preferita: avrei voglia di promuoverlo a scatola chiusa ma è troppo rischioso.
“Quando? È una settimana un po’ piena…”
“Ma sei in ferie! Io cosa dovrei dire?”
Sei una tirocinante, io sono il capo.
“Posso solo giovedì.” la anticipo cercando di concludere velocemente.
“In pausa pranzo?”
Dunque, fammi pensare: mercoledì è il compleanno di Luca e per la nostra serata ho prenotato da Toe’s. Ho immaginato un post cena scoppiettante, dove Luca, davanti al camino accesso, scarterà la sua chitarra e canterà Shallow solo per me. Se i miei calcoli sono esatti, dopo la sua esibizione, l’atmosfera diventerà bollente e brucerò tutte le calorie ingerite al ristorante… quindi sì: l’indomani sarò affamata. È un incentivo.
“Va bene.” rispondo decisa.
“A che ora?”
“Non so… dimmi tu…”
“Allora ricapitoliamo: gnocco fritto e tigelle, accompagnati da salumi e formaggi misti, lardo al rosmarino e pinzimonio con verdure di stagione. A seguire, tortelli burro e salvia e lasagne bicolore al ragù. Arrosto ripieno accompagnato da un pasticcio di patate e torta Barozzi servita su un letto di mascarpone, ricoperto di scaglie di cioccolato fondente.”
Ho un conato di vomito.
“Non avevamo detto di togliere il lardo al rosmarino, di aggiungere più pinzimonio, di sostituire i tortelli con una pasta senza panna e senza burro, e di barattare il secondo con il dessert?”
“Sì lo avevi detto, ma sarebbe come tarpare le ali alla sua creatività, il lardo al rosmarino e l’arrosto ripieno sono cavalli di battaglia… non puoi chiudere un occhio?”
“Più che chiudere un occhio, sarebbe meglio chiudere lo stomaco con un bypass gastrico.”
“Esagerata!”
Io?
“Cristina, stavo uscendo, ho un appuntamento, arriviamo a un dunque: a che ora facciamo?”
“Calcola che Massimo…”
“Massimo?”
“Sì, come Bottura.” risponde fiera. “Massimo avrà già preparato basi e impasti, dovrà solo cuocere e friggere… quindi direi per le undici. Che ne pensi?”
Penso all’odore di fritto che impesterà le tende, il divano e pure i cuccioli, ma non mi resta che accettare.
“Okay.”
“Io arriverò per l’una: in clinica c’è bisogno di me.”
La frecciatina finale: dovevo aspettarmela.
Ammetto che questi ottocento euro destinati a un paraurti avrei preferito investirli in qualcosa di più frivolo, ma la vita ci tiene a ricordarti che le frivolezze lasciano sempre il tempo che trovano.
Tiro il freno a mano. Spengo la macchina, la saluto e scendo. Mi volto a guardarla ancora una volta prima di entrare in carrozzeria e mi dico che se solo avessi avuto la freddezza — non dico di fermarmi — ma almeno di rallentare per memorizzare il numero di targa, adesso non sarei qui. Ma se ora non fossi qui, non potrei godere del profumo di vernice che mi riempie le narici e soprattutto, non mi troverei di fronte a un vero colpo di scena.
C’è un’auto dello stesso modello e colore di quella che mi ha tamponato, e guarda caso, ha proprio il paraurti anteriore ammaccato: non può essere una coincidenza.
Il capannone è deserto, sento delle voci in lontananza, provengono dagli uffici che sono dalla parte opposta in cui mi trovo, ma lo spazio è così ampio che mi arrivano come un eco. Mi tolgo gli occhiali da sole e mi avvicino furtivamente alla macchina per sbirciare il nome del proprietario sul tagliando dell’assicurazione, ma non c’è.
E lì, mentre rimpiango il periodo in cui la legge imponeva di esporlo, mi chiedo quanto tempo ci vorrà prima che qualcuno si accorga di me. E se cercassi il libretto di circolazione nel vano portaoggetti? Non c’è tempo di pensare, devo agire. Mi guardo intorno, nessuno mi vede, afferro la maniglia, la tiro verso di me e la portiera si apre: sembra troppo bello per essere vero. Mi abbasso, infilo la testa nell’abitacolo, ma prima che possa portare a termine la missione, sento qualcuno tossire proprio dietro di me. Mi volto di scatto e vedo Franco, il signore con cui parlo di solito. È una montagna d’uomo con la barba e gli occhiali, e il nome di battesimo che la madre gli ha dato, mi riconduce inevitabilmente a Franchino di Fantozzi.
“Franco, buongiorno!” dico rimettendomi gli occhiali che mi sono appena caduti per terra.
“Dottoressa…”
La nota di biasimo che leggo sul suo viso, mi fa morire di vergogna.
“Mi lasci spiegare, la prego… non è come pensa.”
“E cosa dovrei pensare?” mormora aggrottando le sopracciglia.
“So di essermi introdotta all’interno di un’auto che non è la mia, ma non stavo rubando, mi creda.”
Chino il capo , lo prego a mani giunte, ma quando il mio sguardo torna su di lui, lo vedo infilare la mano in tasca, estrarre il portatile e sistemarsi gli occhiali per comporre un numero.
Non starà chiamando la polizia? È assurdo! Sono io che ho subito un danno, non posso finire in carcere.
Lo vedo al rallenty: l’indice di Franco preme il tasto 1, mancano un altro 1, un 3 e la mia vita sarà distrutta.
Gli strappo il telefono dalle mani, pigio il tasto rosso e lo infilo nella tasca del cappotto. Ora dovrà ascoltarmi.
“Sono un veterinario rispettabile, non mi metterei mai in una situazione così assurda senza motivo.”
Sembra che mi stia a sentire, mette anche le mani sui fianchi.
“È vero: sono stata tamponata e sono fuggita. Solo una scema agirebbe così… ma la moglie del mio cane stava per partorire, era un’emergenza, non potevo fermarmi e compilare una constatazione amichevole.”
La mia sincerità genuina sembra divertirlo. Mi ascolta con interesse, prendo fiato e vado avanti.
“Non ho visto la targa della macchina, ma so riconoscere il modello e il colore di quella che mi ha tamponato a quel semaforo venerdì scorso. E sono certa che si tratta di quella macchina.”
La mia arringa finale si conclude indicandola. Se fossi in in aula di tribunale, la giuria si sarebbe già alzata per applaudirmi.
“Venga con me.” borbotta Franci facendomi segno di seguirlo verso gli uffici.
“Perché?”
“Per farla parlare con il proprietario dell’auto.”
Sta scherzando?
“Aspetti… mi sta dicendo che nel
2019, nonostante il nostro paese sia in piena crisi economica, c’è ancora qualcuno che viene a cercarti per rimborsarti un danno?”
“Sì.”
Avrei voglia di ridergli in faccia.
“E che quel qualcuno è qui? Ora?”
“È il mio socio: stavo digitando il suo interno, ma lei mi ha preso il telefono…”
“Scusi…” dico mentre glielo rendo sentendomi avvampare.
“Dottoressa, mi sorprende che non abbia
fiducia nel genere umano…”
Si sbaglia: io ho sempre saputo che qualcuno si sarebbe fatto vivo, è Cassandra che quando lo saprà non ci crederà mai.
CINQUANTASETTESIMO EPISODIO
Illustrazione: Valeria Terranova