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7 Set

Qualcosa è cambiato…e non è il film con Jack Nicholson

enrica alessi storie di ordinaria follia

enrica alessi storie di ordinaria follia

 

È

 passato un anno da quando Zen, il mio referente di Grazia, mi ha concesso il privilegio di avere una rubrica in cui raccontare le mie storie di ordinaria follia. 

E succede che — un po’ per il senso del dovere e un po’ per la dedizione nei confronti di un mestiere che amo — decido di sfruttare un pezzetto di vacanza e la stessa Saint Tropez che ha favorito il mio esordio, per scrivere il primo pezzo di stagione: cosa è cambiato da un anno a questa parte? 

 

“Giaco… sai che vorrei farmi un regalo?” 

“Lo so. La Kelly vintage che hai visto nel negozio in centro.”

“Sì…” 

“E non avevi detto che sarà la borsa che ti regalerai con i tuoi risparmi per dimostrare a te stessa e al mondo che sei una donna indipendente e autonoma?”

“Infatti… io stavo parlando di un’altra cosa…” 

Giaco impallidisce. Nel suo sguardo si cela una domanda che lo turba profondamente: lo conosco bene. Si sta chiedendo: ‘cosa avrà visto adesso?’ e invece non apre bocca. 

Se ne sta seduto a leggere il giornale, sperando che il suo interesse verso gli affari di politica interna mi dissuada dal pronunciarmi. 

Comprendo le sue paure, vedo ‘cose’ in continuazione, ma questa volta è diverso. La fase dello shopping compulsivo non solo è passata, è stata sostituita da quello oculato e le mie esigenze sono cambiate. 

“Non vuoi sapere cos’è?” 

“Preferirei di no.” risponde divertito. 

“Puoi rilassarti Ciccio… è un regalo spirituale.” 

Giaco chiude il giornale, si vede che è consapevole di essere fuori pericolo. Si prepara ad ascoltarmi e ha il sorriso di chi non vede l’ora di sapere cosa ho in mente stavolta. 

“Dimmi, tesoro…”

“Allora, il regalo in questione non è altro che una piccola pausa da trascorrere in autonomia a uno dei tavoli di Senequier, in compagnia di un Gin Tonic — ho letto che accelera il metabolismo.”

 

Ho lanciato un sondaggio su Instagram, qualcuno diceva che non ce l’avrei fatta, ma sapevo di avere buone possibilità di riuscita e sapevo anche che mi sarei concessa un’ora soltanto. Ma sono dove volevo essere: seduta in prima fila su una delle sedie rosse di Senequier. 

Per definizione è un happy hour. 

Però non sapevo che avrei indossato un abito lungo monospalla di Cavalli, comprato all’Incontro da Cesare un secolo fa. Ha un effetto plissettato grazie alla stampa che riprende la venatura delle foglie che stanno alla base di un’orchidea gigantesca. 

Il mio Gin Tonic arriva subito, accompagnato da un piatto di olive verdi e di salatini che non mangerò per non rovinarmi la cena. Do un sorso al bicchiere e acciuffo il telefono che si è nascosto nella borsa. Apro le note e inizio a scrivere: cosa vedi? 

Alzo lo sguardo dallo schermo e mi concentro sulla passeggiata che ho di fronte. Solo ora presto attenzione al signore che sta suonando la chitarra per i passanti: sorride, sembra felice di fare ciò che fa, o non sarebbe un artista di strada. L’altro ieri, mentre stavamo cenando nello stesso ristorante in cui andremo stasera, Emma mi ha definito un’artista di scala. Ha ragione: è sulla scala di casa che scrivo di solito. 

Le persone mi passano davanti, le osservo con discrezione: c’è chi sorride, chi va di fretta, chi si bacia, chi si abbraccia e chi si atteggia. Schiena dritta, pancia in dentro petto in fuori… siamo a Saint Tropez, ci sta. 

Guardo l’orologio: sono già passati venti minuti e ho scritto solo tre righe. Devo muovermi, il resto della family verrà a prelevarmi tra poco. Lascio perdere la forma e mi concentro sulla sostanza: cosa è cambiato da un anno a questa parte? 

Il pollice destro si lancia in picchiata sulla tastiera e inizia a darsi da fare. 

Le barche sono sempre le stesse, il colore di questo locale è sempre lo stesso, e anche se Karl se n’è andato, il suo tavolo è al solito posto, come lo ha lasciato l’ultima volta che l’ho visto sedersi accanto al nostro, un anno fa. 

Invece, Jean Robert De la Cruz, la versione francese di Julian di American Gigolò — solo con trent’anni di più, anche se portati benissimo — ha abbandonato il ruolo di direttore per aprire il suo ristorante: Chez Jean Robert. Mi piace andare da lui. 

Pure Mingo, il capo della Capoeira, l’eroe di Carola, è sempre lo stesso. Anche le bimbe se sono accorte. 

“Papà, hai visto gli addominali di Mingo? Ha la tartaruga che fa il solco nella maglietta!”

Mingo ha regalato a Carola la sua canotta, dietro c’è scritto il suo nome: MINGO 19. Ha detto che la metterà l’ultima sera per farsi immortalare con lui. 

Sorseggio ciò che è rimasto del Gin Tonic e quel senso di libertà che mi invade, mi ricorda la libertà intesa in senso differente: quella che ho scoperto l’altro giorno, mentre camminavo sul mare. 

Sono arrivata a una spiaggia di nudisti ed è stata dura rimanere indifferente senza gli occhiali da sole dietro cui avrei nascosto il mio imbarazzo. Sono pudica come la Secca? 

Forse sono solo stata colta alla sprovvista. Dimentico i corpi nudi e mi rimetto a osservare la strada: una carrozzina guidata da mamma e papà, una ragazza in dolce attesa, un nonno sul marciapiede del porto che tiene in braccio il nipotino… Così? Tutti insieme? Si sono dati appuntamento? E inevitabilmente, finisco per pensare al mio libro e a cosa ne sarà di noi. Piacerà? Starà vendendo? La casa editrice me ne chiederà un altro? 

Sospiro, il pollice ritorna sulla tastiera e scorro il testo per controllare la lunghezza di ciò che ho scritto: potrebbe bastare.

“Mamma…” 

Basterà: il tempo è scaduto, Giaco e le bimbe sono venuti a prendermi. 

“Amori! Pago il conto e arrivo…” dico lanciando loro un bacio. 

Si allontanano e io cerco di concludere. 

Non so cosa ne sarà di me e del mio libro, avrò tempo di scoprirlo. Oggi credo che mi limiterò a ringraziare Saint Tropez per le emozioni che mi regala. E anche Brigitte Bardot: se non avesse girato quel film, ora tutto questo non esisterebbe.