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3 Giu

La sala d’attesa

l'amore ai tempi supplementari

 

l'amore ai tempi supplementari

 

 

 

 

 

 

M

io padre non si è accorto di me, ha ancora il capo chino, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, fissa il nulla.
Davide gli siede accanto nella stessa posizione e io resto immobile a guardarli, realizzando che l’ultima volta che si sono trovati insieme, in una sala d’attesa, è stato il giorno in cui è nata Sofia.
Qualcosa mi impedisce di avanzare: è come se la mia mente tentasse di prendere tempo, di rifugiarsi nel ricordo per riportarmi indietro con la memoria a rivivere un momento felice in cui –– nonostante le contrazioni –– andava tutto bene.

“Eva, ci siamo quasi…” dice l’ostetrica.
Lo ha detto anche cinque minuti fa e invece non ci siamo per niente: soffro come un cane.
“Ho bisogno di mio marito, può chiamare mio marito?”
“Ma poco fa mi hai chiesto di non farlo entrare per nessun motivo…”
“Certo, non volevo che mi vedesse in questo stato, ma sto partorendo, avrò pure il diritto di cambiare idea?”
“Vado a chiamarlo, tu continua a respirare.” mormora uscendo.
Continua a respirare? Che razza di raccomandazione è? Ho un’alternativa? No, non ce l’ho un’alternativa. E lì, mentre mi chiedo come si possa anche solo pensare di dire stupidaggini del genere, Occhi di cioccolato mi si palesa davanti con un camice azzurro e già mi sento meglio.
“Amore mio… vieni qui.” sussurro allungando le braccia verso di lui.
Davide si avvicina, mi prende la mano, ma ha tutta l’aria di chi è stato trascinato qui con la forza. Forse avrebbe preferito rimanere in sala d’aspetto a chiacchierare con mio padre, eppure ho bisogno del suo aiuto.
“Come ti senti?” chiede accarezzandomi.
La sua domanda si conclude proprio all’inizio di un’altra contrazione e questa volta è fortissima.
“Forza Eva, adesso spingi.” suggerisce l’ostetrica che è tornata in posizione.
“Non ci riesco, fa troppo male!”
“Vedo la testa!”
È senza dubbio un buon segno, ma l’immagine dell’espulsione mi ha sempre terrorizzata.
“Amore, tutto okay?” mi chiede Davide.
Io non me la sto passando benissimo, ma pure lui, che è in piedi al mio fianco, ha un colore verdastro.
“Eva, ascoltami: alla prossima contrazione, spingi con tutta la forza che hai e vedrai Sofia.” dice l’ostetrica incoraggiante.
Questa immagine, invece, mi ha sempre confortata, ma vorrei vedere lei al posto mio.
“È sicura?” dico piangendo. “Non ce la faccio più!”
Ed eccola la contrazione che mi era stata predetta, ora tocca a me.
Chiudo gli occhi, stringo i pugni, grido a squarciagola. La pancia si svuota e sento il vagito di mia figlia.
“Ce l’ho fatta?” chiedo riaprendo gli occhi.
L’ostrica tiene Sofia tra le braccia, ma Davide è scomparso.
“Dov’è mio marito?”
Mi basta guardare il pavimento per rispondermi: è svenuto.

Davide, dopo la caduta, è stato soccorso da una seconda ostetrica che lo ha rimesso in piedi. Ha solo un bernoccolo grande come una noce, ma Sofia sta bene e veniamo dimesse tre giorni dopo.
È strano tornare a casa, sono una mamma adesso e tutto sembra diverso, penso, mentre guardo la più bella delle mie creazioni dormire nella culla. A distrarmi dal mio orgoglio materno è Davide che si siede sul divano accanto a me, abbracciandomi.
“Non ti ho mai vista così bella, lo sai?”
“Ti ricordo che hai perso i sensi in sala parto: non dovevo essere un gran bel vedere…”
“Svenire è stato umiliante, puoi smettere di ricordarmelo? Grazie…” precisa divertito.
“Invece, credo che lo dirò a tutti i tuoi compagni di squadra.”
“No! Guai a te.”
Mi chiude la bocca con un bacio, ma il telefono, che vibra silenzioso, mette fine al nostro momento romantico.
“È tua madre”, mormora leggendo il nome sul display. “Forse è arrivata.”
Non gli ho mai nascosto le nostre difficoltà, eppure ha un sorriso incoraggiante. Davide è il solo a conoscere realmente la mia sofferenza per questo distacco e, sebbene sia consapevole che l’ostilità nei confronti di mia madre è giustificata, è affezionato a lei. Sospiro, afferro il telefono e mi alzo per raggiungere la stanza da letto.
“Ciao mamma.”
“Tesoro, sono qui”, bisbiglia. “Non ho suonato il campanello per non svegliare Sofia…”
“Ti apro.” la interrompo dirigendomi verso l’ingresso.
“È qui fuori?” chiede Davide alzandosi.
Mi limito ad annuire, lui si offre di andare ad aprire al posto mio.
Ed ecco mia madre: in tutto lo splendore a cui sono abituata. Indossa un trench a fantasia, un paio di pantaloni dal taglio classico e un tacco a stiletto: se ha viaggiato così, meriterebbe un applauso.
“Davide! Ciao!” sussurra abbracciandolo. “Come stai?”
“Non ho partorito, ma sono svenuto.”
Tradurrei la sua battuta d’esordio come l’essenza della sdrammatizzazione: a stento trattengo una risata.
“Non dirai sul serio?”
Non gli dà il tempo di rispondere, mi vede e si precipita verso di me allungando le braccia per stringermi.
“Tesoro! Congratulazioni!”
Se gli scienziati inventassero un farmaco capace di cancellare i brutti ricordi, lasciando intatti soltanto quelli belli, le vittime di eventi traumatici vivrebbero molto meglio. Fingerò che le iniezioni di eparina che mi hanno prescritto abbiano lo stesso principio attivo.
“Ciao mamma, che bello vederti.”
Le mie parole sono sincere, mi escono dal cuore, ferito e bisognoso di affetto.
“Ho preso il primo volo disponibile, mi dispiace di essere arrivata soltanto adesso.”
Anche lei sembra sincera.
“Non preoccuparti”, interviene Davide. “Non potevi sapere che Sofia sarebbe nata con una settimana di anticipo.”
“Com’è andata? Come ti senti?”
“Sto bene, Sofia è buonissima: dorme sempre.”
Mia madre si avvicina alla culla, osserva mia figlia estasiata. Confesso di aver visto questa immagine nei miei sogni, almeno un milione di volte e, ora che lo sto vivendo, è commovente come immaginavo.
“È bellissima tesoro! Avete fatto un piccolo capolavoro.” bisbiglia voltandosi verso Occhi di cioccolato.
Fuso, aggiungerei: si sta sciogliendo.
“Posso prenderla in braccio?”
La sua domanda è pura formalità: solleva Sofia e la culla dolcemente: lei continua a dormire beatamente.
“Non saprei dire a chi assomiglia…” sussurra osservandola con uno sguardo pieno di amore.
“Assomiglia a me.” interviene Davide.
“Assomiglia a tutti e due.” preciso.
“Ha ragione Eva: assomiglia a tutti e due.” conclude lei divertita.
Sofia la pensa diversamente: si sveglia e piagnucola o, forse, sta solo chiedendo il suo pranzo.

Nonna Fiorella resta con noi per tutto il pomeriggio. Non so se il merito sia dell’eparina che mi sono iniettata poco prima del suo arrivo, ma ho dimenticato i brutti ricordi e ho rivisto la mamma affettuosa che conoscevo prima che ci lasciasse. Sono felice che sia qui.
“Quanto resterai?” le chiedo sorridendo, quasi a volermi garantire la sua presenza per un po’ di tempo.
“Ho un volo prenotato per dopodomani.”
Le mie speranze si sono appena frantumate.
“Ma tornerò presto, te lo prometto.”

Se sono passati sette anni da allora, forse, avevamo due modi diversi di intendere, la parola ‘presto’. E prima che la Lego Friend entrasse nella mia vita, quel famigerato venerdì nero, l’amore di Davide ha sempre colmato il vuoto che l’assenza di mia madre ha lasciato nella mia vita.
I ricordi belli sono imprevedibili, ritornano così: senza preavviso, senza iniezioni di eparina, nella sala d’attesa di un ospedale.
Sono loro a darmi il coraggio di avanzare verso la panchina su cui sono seduti gli uomini che mi stanno aspettando. Il primo ad accorgersi dei miei passi è Davide: solleva il capo, si alza, viene verso di me. Mio padre lo imita, corro da lui, lo abbraccio e scoppiamo a piangere. Davide è di fronte a noi, ci guarda impotente. Io, continuo a stringere papà e, ancora una volta, sento che ha bisogno di me, della mia forza, del mio coraggio.

SESSANTESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova