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6 Giu

Diario di una schiappa –– e non è il film con Zachary Gordon 

enrica alessi storie di ordinaria follia
enrica alessi storie di ordinaria follia
 
S
e un giorno la sensibilità in persona mi incontrasse per strada, sono quasi certa che potrebbe commuoversi.
Le persone come me sentono il doppio, sentono prima, prima dei loro passi arriva la loro anima ed emotivamente sono un chiavica. Nel lontano 1999, ero al cinema con Giaco a vedere Tarzan della Disney – non mi sono mai persa un classico, anche prima di diventare mamma – e sebbene mi stia ancora chiedendo come fossi riuscita a convincere un uomo con il petto villoso ad accompagnarmi, di fatto, la cosa che non scorderò mai fu il mio pianto disperato che fece borbottare tutta la platea, mentre Giaco, vergognandosi come un ladro, minacciava di non portarmi al cinema mai più. Con Red e Toby era stato molto peggio, ma allora ero più piccola: il margine di giustificazione era leggermente più abbondante, eppure anche da bambina le cose non andavano in modo diverso.
Ricordo come se fosse oggi, quel giorno in cui, a una gara di beneficenza, vinsi il primo premio: una pista con le macchinine da maschio e, quando uno degli organizzatori mi chiese di cambiarla con qualcos’altro, invece di farmi scegliere le opzioni disponibili, mi propose un peluche piccolissimo, chiedendomi: “Ti piace?”
Ora, a dirla tutta, Billy schifo non faceva, ma avevo vinto il primo premio, il suo equivalente al femminile sarebbe dovuto essere una casa di Barbie con l’ascensore e la spider, ma per paura di ferire i sentimenti di quel signore, mi limitai a rispondere: “Va bene.”
Tornando a casa, gettai il peluche dall’ auto in corsa.
Ma a farmi capire che è sempre bene esprimere un’opinione –– anche quando l’oggetto in questione fa schifo –– fu un paio di sneakers sbagliato.
Ero alle medie, la prof di ginnastica aveva richiesto espressamente un paio di scarpe da usare solo in palestra. Mio papà mi portò al mercato e invece di comprarmi un topolino per due soldi, mi indicò una sneakers gialla e viola con un appeal improponibile, dal nome impronunciabile. Il commesso mi fece la stessa domanda inquietante: “Ti piacciono?” E io, pur sapendo che nessuno mi avrebbe obbligata a comprarle, pur non avendo nessuna pistola puntata alla nuca che mi convincesse a dire di sì, dissi di sì lo stesso e tornai a casa con le sneakers più brutte della storia, chiuse in una scatola.
Chi avrebbe avuto il coraggio di mettersele a scuola? Mi avrebbero preso in giro tutti. Perché non avevo avuto il coraggio di dire la verità, di ammettere che a quell’età già non ero un fiore e che quelle scarpe sarebbero state il colpo di grazia? Durante il tragitto che mi riportava a casa, seduta sul sedile del passeggero, accanto a mio papà, la tentazione di gettare anche quelle dall’auto in corsa fu fortissima, ma provai a negoziare.
“Papi…”
“Sì…”
“Le scarpe fanno proprio schifo.”
“E perché non lo hai detto subito?”
“Per paura che il commesso ci rimanesse male.”
“Non è una giustificazione.”
“Ma io sono sensibile…”
“È un problema tuo, ormai le abbiamo comprate e adesso te le metti.”
Oggi, dopo trent’anni da allora, dico sempre ciò che penso – con le dovute maniere – ma ringrazio quelle sneakers gialle e viola e le ringrazierò per sempre.
Illustrazione: Valeria Terranova