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9 Giu

Mamma ti voglio bene

l'amore ai tempi supplementari enrica alessi

 

l'amore ai tempi supplementari enrica alessi

 

 

 

 

I

ricordi belli non bastano a tenermi lontana dalla realtà. Continuo a stringere mio padre sforzandomi di sussurrare parole incoraggianti che però, pronunciate tra i singhiozzi, risultano poco credibili. D’un tratto, la porta alle sue spalle si apre ed esce un medico che si dirige verso di noi. Scosto il mio corpo dal suo, mio padre si volta ed entrambi realizziamo che la vita che abbiamo pregato di risparmiare è nelle mani di quell’uomo.
Guardo il dottore cercando di interpretare la sua espressione, ma chi tenta di non farsi coinvolgere non lascia trapelare emozioni. Mi rassegno e aspetto che siano le sue parole a chiarire lo stato di salute di mia madre.
“Come sta?” chiede mio padre asciugandosi il viso.
“L’ematoma era di tre centimetri, siamo intervenuti chirurgicamente per rimuovere la massa ematica e fermare l’emorragia.
Abbiamo deciso di tenere sua moglie in coma farmacologico per proteggere il cervello, che stiamo monitorando tramite elettroencefalogramma. La quantità di barbiturici che abbiamo somministrato per indurre il coma dovrebbe ridurre l’attività elettrica cerebrale e diminuire la richiesta di ossigeno…”
“Si sveglierà?” interviene Davide.
“Se le condizioni generali dovessero migliorare, ridurremo i farmaci gradualmente sperando che riprenda conoscenza.”
Dopo quel ‘se’ e quella quantità innumerevole di condizionali, nessuno dice nulla, il silenzio e la speranza sembrano le uniche cosa che ci restano, ma non credo mi basteranno. Il dottore deve essersi fatto un parere e io voglio conoscerlo.
“Lei che ne pensa?”
Sebbene il tono deciso con cui gli pongo la domanda sia poco credibile, lascia intendere che sia disposta a reggere una risposta onesta, ma la preoccupazione che noto negli sguardi degli uomini che mi sono accanto mi fanno pentire di aver manifestato l’esigenza di sapere come stanno davvero le cose.
“Voglio essere sincero: la situazione è molto delicata”, mormora il dottore. “La ripresa di coscienza dipende dal danno preesistente. Il recupero funzionale e cognitivo sono variabili: alcuni pazienti guariscono completamente, altri presentano disfunzioni permanenti. Nonostante il trattamento medico, la morte è comunque un’eventualità possibile. Non voglio nascondervi che le prossime ore saranno decisive.”
Nasciamo con la sola certezza che nulla è destinato a durare per sempre, ma qualunque sia la forma, la modalità o l’aspetto, la morte ci fa paura.
“Possiamo vederla?” mormora mio padre.
“Certo. Vi chiedo solo di entrare uno alla volta e di limitare il numero totale di visitatori: non disponiamo di spazi adeguati fuori dal reparto.”
Mio padre annuisce, si volta verso di me quasi a volermi offrire la precedenza, ma lo rassicuro, invitandolo ad entrare per primo.
“All’ingresso del reparto, c’è una zona che chiamiamo ‘filtro’. Dovrà disinfettarsi accuratamente le mani con un gel alcolico, prima e dopo la visita, indossare i calzari, un camice di carta monouso e dei guanti. Le fornirà tutto il nostro personale.”
“Va bene.” sussurra lui.
“Venga, la accompagno.”
Mio padre mi abbraccia ancora una volta, il dottore ci guarda con un sorriso affettuoso e afferra la maniglia della porta facendogli segno di seguirlo.
La porta si chiude, io resto sola con Davide.
“Mi dispiace Eva, mi dispiace tantissimo.”
Mi guarda, ha gli occhi lucidi, fatica a parlare ed è difficile capire chi sia in grado di consolare chi.
“Fiorella è forte, so che ce la farà”, si affretta ad aggiungere.
Non so chi lo abbia informato, non so come abbia gestito gli allenamenti con la squadra, ma ora è qui, in uno dei momenti più duri della mia vita e tutto ciò che è stato non sembra avere più importanza.
“Non voglio che Sofia lo sappia.” dico con un filo di voce.
“Non le diremo niente, te lo prometto… e se c’è qualcosa che posso fare per aiutarti, sono qui.”
“L’ho sentita prima di arrivare… le ho detto di aver avuto un imprevisto al lavoro…”
Le parole mi si strozzano in gola.
“Non puoi andare da lei, adesso.”
“Lo so”, dico singhiozzando. “Ma sono una mamma, devo essere in grado di…”
Di? Non piangere? Di gestire la cosa nel modo migliore per il bene di mia figlia? Non sono nemmeno in grado di parlare, è troppo per me, non posso farcela da sola, non questa volta. E mentre mi rivolgo quelle domande a tappeto, supplicando un bonus celeste che mi consenta di affrontare la situazione con dignità materna, Davide mi stringe a sé.
Non dice nulla, sento solo il suo respiro affannato e il desiderio sincero di poter fare qualcosa.
“Guardami”, mormora tenendo gli occhi su di me. “Ci sono anch’io. Penserò io a lei.”
Se qualcuno mi avesse detto che, un giorno, io e Davide ci saremmo abbracciati con affetto di nuovo, forse non ci avrei creduto, eppure sta succedendo adesso.

Davide se n’è andato, sono sola con i miei pensieri, quando, d’un tratto, la porta si apre e appare mio padre: ha gli occhi gonfi, il viso segnato dal dolore, ma nel suo sguardo mi ostino a vedere la speranza di chi non vuole rassegnarsi.
“Hai parlato con lei?” gli chiedo tentando di mostrarmi forte.
“Sì che le lo ho parlato, amore mio, ed è come se potesse sentirmi.”
Tenta di frenare il pianto mentre lo dice.
Abbasso gli occhi, sospiro, vorrei dire la cosa giusta per sollevare il suo spirito, per dargli conforto, ma è difficile. È lui ad anticiparmi, mi accarezza il viso e riprende il suo ruolo: quello del papà che, quando ero piccina, sapeva sempre come consolarmi.
“Ora tocca a te, hai tante cose da dirle: ti sta aspettando.”
So che è così e, seppur in cuor mio sia consapevole di quanto è difficile accettare che potrebbe essere l’ultima volta in cui potrò dirle ciò che vorrei, l’impazienza di starle vicino mi fa annuire sorridendo.
“Okay… vai a casa… ti chiamo più tardi.”

Ci metto qualche secondo per riuscire ad avvicinarmi alla mamma. Sembra che stia dormendo beatamente, ma la garza che le avvolge il capo mi fa trasalire.
È assurdo: avrei potuto approfittare del suo stato vigile per dirle apertamente che ho bisogno di lei e, invece, l’ho dato per scontato. Il mio stupido orgoglio mi ha impedito di aprire il mio cuore. Mi sarebbe bastato chiederle di starmi vicino, piuttosto di fingermi la donna forte che non sono. Per anni le ho lasciato credere che me la stavo cavando benissimo anche senza di lei, ma cosa importa ormai?
Per quanto mi sforzi di ricordare a me stessa che non è ancora detta l’ultima parola, quelle che sto per pronunciare si uniscono alla preghiera che possa ascoltarle e portarle con sé.
Mi avvicino lentamente, afferro la sedia che sta accanto al suo letto e le prendo la mano. Le lacrime, calde e incontenibili, mi bagnano il viso e mi aiutano ad aprire bocca. Prendo fiato e mi abbandono a un monologo liberatorio.
“Mamma…” dico io.
Apri il tuo cuore… suggerisce una voce dentro di me.
“Ti voglio bene, mamma. Devi svegliarti, devi farmi capire che senti ciò che dico.”
È strano, ma penso a Filippo, all’uomo che l’ha convinta a trasferirsi, ad allontanarsi da noi e, anche se provo pena per lui, immaginandolo nell’aldilà, la paura che possa desiderarla a tal punto da convincerla a lasciarmi ancora e per sempre, mi impone di cambiare il tono della mia conversazione. Di esercitare una forma di rivalsa nei confronti di colei che mi è mancata da morire. “Sono qui mamma, sono qui e non voglio perdere un’altra occasione per dirti che ho bisogno di te, ora, più che mai. Resta con me, non andartene. Sei la mamma che mi ha insegnato ad amarmi, che si è presa cura di me. Sei stata la mamma che non ha mai mancato in nulla. Io e i miei atteggiamenti, piuttosto, ti hanno fatto credere che potessi fare a meno del tuo amore e, invece, devi sapere che mi manchi e che voglio che resti qui con me…”
Le mie parole non servono a niente: il mio pollice accarezza il dorso della sua mano, ma lei resta immobile, i suoi occhi non si aprono.
“Mamma… ti voglio bene… Cosa devo fare per riportarti qui da me?”

SESSANTUNESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova