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27 Giu

L’uomo che sussurrava ai cavalli — e non è il film con Robert Redford

enrica alessi storie di ordinaria follia

enrica alessi storie di ordinaria follia

 

 

 

 

R

ipenso spesso a quel momento e sono certa che a innescare quel desiderio e a convincermi ad iniziare un corso di equitazione, non era stata l’attitude fascinosa delle amazzoni — che avrei disperatamente tentato di imitare — ma la necessità di dimostrare qualcosa a me stessa. Sono quella del “mai mollare”, della razza peggiore: testarda incallita e siccome per imparare uno sporto ci metto una vita, quella poteva essere una sua lezione per incentivare la mia pazienza. I risultati della mia perseveranza avrebbero avuto effetti anche sulla mia determinazione — lavorativamente parlando — o almeno, era quello che credevo succedesse.

 

Non voglio stress: se devo imparare ad andare a cavallo, sarà meglio che mi rivolga a qualcuno che conosco, qualcuno di cui mi fido e lì, mentre mi chiedo se il problema non sia viceversa: ‘chi può fidarsi me?, mi sovviene che Wainer, il marito di Roberta, ammaestra cavalli e ha una piccola scuola di equitazione.

Dopo un paio di telefonate per definire il giorno della mia prima lezione e la mise della perfetta cavallerizza 2.0, mi presento alla Garrocha. Scendo dall’auto e guardo fiera la mia tenuta sportiva, ma un po’ mi dispiace di non essere venuta con un vestito a balze per cavalcare come Rossella O’Hara. Tenere le gambe sullo stesso lato del cavallo può essere anche più difficile, sarà meglio cominciare dal modo classico. Arrivo alle scuderie, sento nitrire e l’ansia mi assale. Devo tranquillizzarmi: sì insomma, è una piccola scuola di equitazione, i cavalli saranno buonissimi, Wainer avrà un occhio di riguardo… eppure, il pensiero di rimanere invalida a causa della mia cocciuta intraprendenza non mi dà pace. A distogliermi dall’immagine di Denzel Washington nel Collezionista di ossa — che la mia mente ha elaborato per mostrarmi la peggiore della ipotesi — è Wainer che esce dalla stalla con il mio destriero, salutandomi.

Non sono sicura che sia un cavallo, sembra più un dinosauro basculante, che diavolo è?

“Ti presento Burlon.” dichiara sorridendo.

Burlon come Marcelo Burlon? Incoraggiante. E allora perché vorrei sparire?

Dannazione. Io non ci salgo su quel coso.

“Roberta non c’è?” chiedo cercando di rimandare di una decina di minuti il momento in cui cavalcherò il dinosauro.

“No, torna stasera.”

Se cado mi uccido e io ho una famiglia: non posso permettermelo.

“Allora, cominciamo?”

“Be’, ecco, sarò sincera: lui è un po’ troppo alto per me, non voglio fare discriminazioni, ma se Burlon mi disarciona…”

“Dai! Non dire così: Burlon è uno stallone buonissimo!”

Ho appena deglutito.

“Vieni, iniziamo…”

Lo seguo impotente domandomi se sia miope: ha visto che sono una donna mignon? Non dico che mi servirebbe un pony, ma nemmeno un cavallo di quella stazza. Speriamo almeno che sia vecchio. Ho letto che i cavalli in età geriatrica sono più mansueti.

“Quanti anni ha?”

“Un paio.”

Appunto.

“Oggi faremo Dressage.” continua incalzante.

Dressage deriva da Dress: vestiremo il cavallo?

“Che tradotto significa?” chiedo mentre guardo le chiappe di Burlon.

“Significa che salirai a cavallo e inizierò con l’insegnarti a tenere le redini e i piedi sulle staffe.”

Wainer si ferma, si ferma anche Burlon.

“Sali!” mi incita.

Mi avvicino, guardo la bestia ed è più facile dirlo che farlo: ci vorrebbe una scala per salire. E mentre immagino la scena in cui la sottoscritta butta il caschetto per aria, mentre di corsa raggiunge la macchina con cui è venuta, Wainer si offre di aiutarmi.

Provo ad arrampicarmi su quel dorso grigio e imponente, ma i primi quattro tentativi falliscono, al quinto ce la faccio e vedo il mondo da un’altra prospettiva –– peccato che soffro di vertigini.

 

Passo. Trotto. Trotto e passo. Non sono mai stata una globe-trotter, ma dopo due settimane, il mio trotto era bellissimo. Non mi importava più di cavalcare come Rossella O’Hara e nemmeno avrei voluto galoppare come Russell Crowe nel Gladiatore, quando torna a casa disperato nel tentativo di salvare la sua famiglia, ero felice della mia piccola conquista, mi bastava. Wainer, invece, riponeva in me grandi speranze, o quel pomeriggio non avrebbe deciso di farmi galoppare.

 

“Sei pronta?”

“È proprio necessario?”

Capisco che la mia domanda è inutile, quando Burlon inizia a correre.

Difficile spiegare cosa provo: sono eccitata, impaurita. Sto volando ma stringo le palpebre per paura di vedere cosa sta succedendo. Le coronarie di aprono, respirano, ne vogliono ancora. La parte razionale di me, invece, mi impone di aprire gli occhi: anche lei vuole godersi lo spettacolo. Per un breve attimo riesco pure a rallegrarmi di quell’emozione mai provata.

“Basta, basta, basta!” urlo in preda al panico.

Wainer ordina a Burlon di fermarsi, lui obbedisce, io smetto di trattenere il respiro.

“Ti è piaciuto?” mi chiede entusiasta.

Il mio sguardo allampanato dovrebbe fargli capire che non ne voglio più sapere, ma preferisco specificarlo: il mio cuore non può reggere il bis.

“Sì però basta così.”

“Ma sei stata bravissima!”

Scommetto che lo dice a tutti.

“No, è stata solo la fortuna del principiante…”

La mia precisazione deve averlo offeso, la sua espressione è traducibile in: sai che ti stai rivolgendo all’Uomo che sussurrava ai cavalli?

“Forza, riproviamo.” dice deciso.

Non ho il tempo di dissentire, all’ordine di galoppare, magicamente espresso con un suono prodotto dallo schioccare della lingua di Wainer, Burlon riprende a galoppare.

“Non ti irrigidire”, raccomanda. “Lasciati cullare dal suo movimento…”

Cullare? Questo cavallo corre come il vento, sarò a due metri da terra… E lì, mentre ripenso alle parole della canzone di Jovanotti, realizzo che è proprio vero: La vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare — su una cacca di cavallo. Stramazzo al suolo. Burlon cerca di evitarmi e mi colpisce solo di striscio tatuandomi il suo ferro sull’avambraccio. Ho appena scampato una rinoplastica ma, tutto sommato, poteva essere la mia occasione per raddrizzarmi il naso. Sarà per la prossima volta, mi dico rialzandomi come se nulla fosse.

 

Tornai a montare Burlon fino a che non fu venduto, piansi quando fui costretta a salutarlo. Wainer mi affidò un nuovo cavallo, Valentino. Era bianco, in età geriatrica, più mansueto, eppure non funzionò, non c’era feeling. Dissi addio all’equitazione con la consapevolezza che per praticare certi sport è necessaria una buona dose di incoscienza e di spensieratezza che io, ahimè, non possedevo più. Ma ancora oggi porto con me l’insegnamento di quella lezione di vita che desideravo impartirmi. Enri, ti capiterà spesso di cadere, ma se ti sei rialzata da uno sterco di cavallo, con un po’ di coraggio e un po’ di determinazione saprai sempre come rimetterti in piedi.

 

Illustrazione: Valeria Terranova