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15 Apr

Il tavolino per la piccola Melissa

not for fashion victim enrica alessi

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I

l piede ha 28 ossa, 27 articolazioni, 100 legamenti, 23 muscoli: mi fa male tutto.
E non so se a deprimermi di più sia questo dolore terribile o sapere di aver voltato le spalle alla Signora Saddle, barattando parte del budget di un acquisto potenziale, per un paio di décolleté con cui non riesco nemmeno a camminare.
Metto in moto. Cerco di simulare un massaggio con la zigrinatura dei pedali: distendo la pianta alternando i movimenti tra frizione, acceleratore, freno. Stiracchio le dita, sento le ossa scricchiolare e ho un gemito di piacere. Evviva.
Come ho potuto pensare di poterle indossare tutto il giorno, senza nemmeno farci un giro di prova? Mi sono fatta ingannare dal mezzo tacco, dalla mia poca esperienza e quello sprazzo di vanità improvvisa ha fatto il resto. E mentre penso che sia stato molto più eccitante toglierle che indossarle, la mia macchina si ferma davanti alla Falegnameria.
Parcheggio nel cortile e vorrei che Thor non ci fosse. Anzi: ti prego Signore, fa che non ci sia. Ma nel caso ci fosse, sarà meglio rimettere le scarpe.
Porto le ginocchia al petto, concedo un ultimo massaggio al piede destro che decide di dare il buon esempio infilandosi
per primo in quel tunnel infernale. Stringo i denti: la prima è entrata, ora l’altra.
Il mio piede sinistro ha un piccolo difetto di struttura: l’ultimo dito si nasconde dietro il penultimo e il penultimo dietro il terzultimo. È un piede timido e fatica a trovare una posizione comoda tra suola e tomaia. Avrei voglia di gridare.
Tengo duro confortata dalla certezza che, una volta a casa, mi libererò di loro incendiandole, e mi ci strizzo dentro.
Ignoro il dolore provocato dal mio gesto deciso e scendo dall’auto diretta all’ingresso. Ogni passo è una smorfia. Mi sistemo il cappotto zoppicando, lo abbottono il più possibile nel tentativo di nascondere il maglione o, per meglio dire, il suo colore, identico a quello del tavolino, in modo da escludere segnali d’intesa subliminali.
Il tintinnio delle porta mi annuncia, Manny Tuttofare mi raggiunge. Forse le mie preghiere sono state ascoltate.
Noto che il tavolino è stato imballato ed è pressapoco nella stessa posizione in cui l’ho lasciato ieri.
“Buonasera, è venuta a ritirarlo?” mi chiede indicandolo.
“Sì, ho parcheggiato la macchina qui fuori.”
“La aiuto a caricare.”
Se da una parte maledico il mio essere donna, a causa delle scarpe che continuano a torturarmi, dall’altra lo ringrazio: giusto per quella forma di cortesia che viene concessa al gentil sesso esonerandolo da ogni tipo di fatica. Manny solleva il tavolino per trasportarlo fuori dal negozio, gli apro la porta, lui esce. Spingo il pulsante del portellone che si spalanca e il primo pezzo è già sulla mia auto. Rientriamo a prendere le sedie, ne afferiamo un paio per uno e usciamo nuovamente.
Dopo averle caricate, mi rassegno: la missione si è conclusa e sto per andarmene senza aver visto Thor.
Difficile stabilire se il sentimento predominante sia il sollievo o la seccatura di aver schivato un turbamento, ma poco importa ormai.
Stringo la mano a Manny per ringraziarlo, faccio per raggiungere il posto di guida, quando un furgoncino bianco parcheggia proprio accanto alla mia auto: è Thor.
Eccolo il dio del tuono, del fulmine e della tempesta — ormonale: la mia.
I lampioni del cortile lo illuminano a mala pena, ma riesco a distinguere i lineamenti del suo volto: le labbra carnose, le mascelle più strette degli zigomi, lo sguardo tenebroso.
“Ciao! Avete già caricato?” dice avvicinandosi a noi.
“Sì, già fatto.” rispondo prontamente, afferrando la maniglia della portiera.
“Ho trovato i pezzi per intagliare le cicogne, sono sul furgone, vuoi vederli?”
Se proprio insiste.
Lascio andare la maniglia, gli sorrido.
Manny torna dentro da un cliente che è appena entrato, Thor mi fa cenno di seguirlo. Si incammina verso il retro del mezzo e apre i battenti.
So che l’entusiasmo della sua espressione soddisfatta dovrebbe contagiarmi, ma vedo solo due tronchi in quel bagagliaio e non ho idea di come possano diventare cicogne. Forse l’arte dell’intaglio non è poi così diversa da quella dei giochi di prestigio.
“Ti piacciono?”
“Ti aspetta un gran lavoro…” mormoro.
“Ma ho scelto bene e sarà più facile.”
Mi strizza l’occhio e si allunga verso uno dei tronchi, lo afferra, lo fa scivolare verso di sé e me lo mostra.
“Quando scegli un pezzo da intagliare, devi assicurarti che non ci siamo nodi e spaccature per evitare sprechi. E devi sempre — e sottolineo sempre — considerare la venatura per sfruttare al meglio la natura del materiale.”
In realtà non me ne frega niente, ma mi piace sentirlo parlare.
“E che tipo di legno è?” gli chiedo.
“Questo è legno di balsa stagionato, è ottimo.”
Se lo dice lui.
“Lo lavorerò con passione, te lo prometto.”
E mentre lo immagino nella versione maschile di Demi Moore in Ghost con il vaso di creta, il telefono mi salva.
“Scusa. Ora devo andare.” dico allontanandomi.
“Ti chiamo appena ho novità.”
“Okay, ciao.”
Dimentico il mal di piedi, mantengo un’andatura dignitosa fino alla macchina, salgo e mi tolgo le scarpe.
Nel frattempo il telefono ha smesso di squillare. Il mix di dolore e sollievo mi provoca una leggera scossa, ma cerco di riprendermi scrollando le spalle, allaccio la cintura e mi avvio verso casa.
L’insegna nature con i due alberi che sorridono sparisce dalla mia visuale subito dopo essere uscita dal cortile.
I piedi sono più leggeri e anche il mio cuore. Non so spiegare cosa sento esattamente, credo sia la stessa sensazione che provi alla fine di un’otturazione — e dire che il mio dentista, Luigi, è anche simpatico — ma è come se mi fossi tolta un dente.
Ci vorrà un mese prima che i tronchi si trasformino in cicogne: posso mettere a riposo il turbamento per un po’. Riprenderò la mia felice relazione amorosa, dal punto esatto in cui l’avevo lasciata, prima che Thor e il suo martello irrompessero nella mia vita. Voltiamo pagina, e vediamo pure chi era al telefono.
Cassandra: le cicogne non smetteranno mai di perseguitarmi. La richiamo.
“Amore…”
“Come stai?”
“Ho i piedi frantumati”
“Perché?”
“Sono state le scarpe che ho comprato da te.” dico con un po’ di risentimento.
“Quali?”
“Le J’Adior.”
“Ma se sono comodissime!”
Abbiamo piedi diversi.
Il nylon del tavolino che sbuca dai sedili posteriori e che vedo riflesso nello specchietto retrovisore attira la mia attenzione. O è l’odore di legno che aleggia nell’aria a distrarmi? È il profumo della Falegnameria, il profumo di Thor.
Volevo consegnarlo a Cassandra solo dopo che la cameretta di Melissa fosse ultimata, ma non posso tornare a casa con qualcosa che profuma di Thor.
“Ti ho fatto un regalo…” dico soave.
“Davvero?” chiede eccitata.
“In realtà non è per te, è per la piccola Melissa…”
“È proprio come dice Enrica nel suo libro. Sono le mamme a fare tutto: portano avanti la gravidanza, hanno la nausea, ingrassano, i vasi capillari si rompono, per non parlare degli ormoni…”
A me lo dice?
“E come se non bastasse, dobbiamo pure vedercela con la ritenzione idrica, il travaglio e il parto. Com’è possibile che i regali siano solo per i bambini che non fanno niente?” ribatte contrariata.
E io che pensavo fosse un pensiero carino. Dannata scrittrice.
“Ci sarà un regalo anche per te…” dico con il tono di chi sta assecondando un soggetto psicopatico.
“Ah ecco. Che cos’è?” chiede dolcemente.
I suoi sbalzi d’umore peggiorano di giorno in giorno.
“Sto passando a consegnartelo, non voglio rovinarti la sorpresa.”

Tommaso mi aiuta a scaricare il tavolino, lo sistemiamo ai piedi del divano della discordia: fa un figurone. Cassandra si commuove.
“È splendido. Dove lo hai trovato?” mi chiede .
“Be’, ecco, è stato un affare…”
I suoi occhi mi incitano a continuare e io non so cosa dire.
“L’ho comprato a un mercatino.” mi affretto ad aggiungere.
“Tu non sei una da mercatini…”
“Io adoro i mercatini.”
“Tu odi i mercatini.”
Ora le dico di averlo trovato in una discarica e la finiamo qui.
“Comunque è bellissimo. Peccato per le décolleté.”
I miei piedi sono gonfi come canotti, e se penso di dover rientrare in quelle scarpe, mi vengono i brividi.
“Ti va di uscire a mangiare qualcosa domani sera?”
“Si può fare… dove andiamo?”
“Sono stata in un posto carino la settimana scorsa. È di un amico di Tommaso, possiamo tornare lì.”
“Come si chiama?”
“Toe’s, è un ristorante fusion.”
“Ci sto. Passi a prendermi tu?”
“Okay e mi raccomando: mettiti in tiro, è un locale alla moda…”
Grazie per l’incoraggiamento.
“Vedrò che posso fare, ma non credo che i miei piedi possano reggere una serata con i tacchi, non dopo oggi almeno…”
“Domani sarà tutto passato.” mi rassicura.
Guardo l’orologio, si è fatto tardi, è ora che vada. Ma appena i miei occhi si fiondano sulle décolleté che mi aspettano accanto alla porta, il mio istinto di sopravvivenza elabora un piano B.
“Non avresti un paio di ciabatte da prestarmi per tornare a casa?”
“Ciabatte? Ci sono due gradi fuori… ti prendo una delle mie sneakers.”

E con quelle ai piedi, spicco il volo verso casa, dove Luca mi sta aspettando.
Il tragitto lo faccio tutto con i finestrini abbassati: preferisco congelare piuttosto che convivere con quel profumo afrodisiaco. E tutto per un tavolino innocente che rimpiango di non aver trovato in una discarica.
Non poteva capitarmi un falegname classico? Un tipo come Geppetto?
Un signore anziano con la schiena curva, magari claudicante. Un vecchietto gentile e sorridente che porta un paio di occhiali sul naso e Pinocchio tra le braccia. Questo mi aspettavo, mica il sosia di Chris Hemsworth. Il mio ragionamento si conclude con il viaggio in auto. Sono a casa. Parcheggio, chiudo i finestrini: l’odore persiste.
Scendo, mi sistemo il cappotto che ho già sbottonato cercando di disperdere il profumo che sento ancora su di me e vedo Luca: mi aspetta sulla porta.
Max corre verso di me, lo schivo. Cerco di calmare la sua euforia abbracciandolo, gli chiedo di fare il bravo: si placa e mi segue scodinzolando mentre raggiungo il mio cowboy. Mi bacia, mi cede il passo per entrare.
“Ordiniamo giapponese? Ti va?”

È lì, nel bel mezzo di una cena a base di sushi, inizio a preoccuparmi: ormai vedo potenziali cicogne ovunque, anche le bacchette mi ricordano i tronchi in versione mignon.
“Domani devo partire per Milano.” dice Luca sorseggiando la sua coca.
“A Milano? Come mai?”
“Il mio agente immobiliare ha trovato un acquirente per il mio appartamento, vado a trattarlo di persona.”
Non ne sapevo nulla. E ora che ci penso, sono ancora tante le cose che non so.
Anche questa volta, tutto va secondo i piani: non avevo chiesto io di riprendere la mia felice relazione amorosa, dal punto esatto in cui l’avevo lasciata?
“Non mi avevi mai detto di avere un appartamento a Milano…”
“Prima di trasferirmi, vivevo a Milano.”
L’ovvietà della sua risposta dovrebbe infastidirmi e invece credo che dovrei prenderla da esempio e fargli notare che non so nulla della sua vita precedente e che probabilmente è giunto il momento di sapere: chi era prima di trasferirsi?
“Sai che non riesco a immaginarti come un topino di città?”
“Perché?” chiede divertito. “Andavo vestito così anche lì, cosa credi?”
Ci mettiamo a ridere.
“Scherzi a parte: perché hai lasciato Milano?”
Il suo sorriso si spegne e rivedo lo stesso sguardo malinconico che ho già visto sul suo volto e che non ho mai dimenticato.
“Avevo voglia di cambiare aria.”
Ripone il bicchiere sul tavolo, riprende a mangiare come se nulla fosse.
Dovrei rallegrarmi che abbia deciso di cambiare aria proprio qui, e anche che abbia venduto la sua casa: è evidente che preferisca la campagna alla città, ma mi dispiace che non abbia preso la mia domanda sul serio. Sta lì: davanti a me, continua a mangiare guardandomi come come se gli avessi chiesto che tempo farà domani. Chi era prima di venire qui?
“Sono piccanti?” chiedo in tono provocatorio.
Forse certe cose vanno assaggiate, prima di rispondere.
Deglutisce, si asciuga le labbra con il tovagliolo, lo ripone sul tavolo e mi guarda negli occhi: sta per dire qualcosa.
“Giacca e cravatta: dal lunedì al venerdì. Ero un uomo d’affari.” sussurra sorridendo.
La sua breve ma intensa descrizione mi fa concludere che coincide esattamente con l’idea che mi ero fatta: lo avevo sempre immaginato in un completo grigio.
Bello come il sole, forse anche meglio della versione con gli stivali. Seppure la seconda mi si addica di più.
Ma concentriamoci sulla versione Yuppie di Diet Coke, e vediamo di azzeccare le prossime domande.
“E nel weekend?”
Lo so: potevo fare meglio.
Lui mi sorride.
“Pelle di giaguaro il venerdì sera, tuta per il sabato, casual la domenica.”
È proprio figlio di Mila.
“Insomma…” sussurro, “vuoi raccontarmi cosa ti ha portato qui da me?”
Mi alzo da tavola mentre lo dico. Credo sia giunto il momento di sfoderare il mio lato sexy e portare a casa il risultato.
Mi avvicino, gli accarezzo i capelli.
“Il regalo arriva venerdì.” mormora.
“Non cambiare discorso.” dico con rimprovero mentre mi siedo sulle sue ginocchia. “Cosa ti ha portato qui da me?”
Lo bacio, credo per lasciargli il tempo di pensare, stavolta vorrei una risposta esaustiva.
“Quindi?”
Odio quando mi guarda con quegli occhi che mi sciolgono, sembra che vogliano prendermi in giro per puro divertimento.
“Mi dispiace di aver avuto questo imprevisto: farà slittare la consegna del mio regalo, ma credo che ne varrà la pena.” conclude in tono malizioso.
“Non me lo dici?” insisto.
“Vuoi che ti sveli il regalo?”
No. Vorrei solo sapere da che pianeta vieni. Non mi importa niente del regalo.
“Okay, te lo dico: devi prepararti…”
A che cosa? Al racconto del suo passato?
Deglutisco, il terrore mi assale.
“Vorrei portarti via con me un paio di giorni: il dove rimane una sorpresa.”
Sta dicendo che confesserà durante un weekend d’amore? Ci sto.
In fondo, cosa può avere da nascondere?
“Vuoi regalarmi un fine settimana romantico? Tu e io da soli?” chiedo accarezzandogli il viso.
“Haha.”
“Dimmi solo cosa mettere in valigia.”

La mattina seguente mi sveglio e sono decisamente più rilassata. Anche il mal di piedi è scomparso. E non vedo più cicogne dappertutto. Solo Max che dorme ancora, ai piedi del mio comodino.
Resto qualche secondo sul letto, mi sdraio sul fianco a disegnare la mappa dei nei sulla schiena di Luca e penso al nostro weekend insieme.
Forse per certe cose è necessario prendersi tempo, ma so che insieme troveremo i tasselli mancanti, e insieme costruiremo tutti quelli che verranno.

 

QUARANTAQUATTRESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova