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21 Mar

Giorni di tuono — e non è il film con Tom Cruise 

enrica alessi storie di ordinaria follia
enrica alessi storie di ordinaria follia
 
R
icordo che quando giunse il momento di prendere la patente, tutte le mie coetanee  erano eccitate, io no. Sono sempre stata atipica — o atopica come la demartite: mi sono sempre manifestata in modo eccentrico e bizzarro.
Non avevo gioito nemmeno per i miei diciott’anni, il fatto di entrare ufficialmente a far parte del mondo degli adulti non mi ha mai entusiasmata. Mi sarei trasformata anch’io: avrei smesso di vivere di sogni, sarei diventata concreta e responsabile e il mio spirito creativo ne avrebbe indubbiamente risentito.
A ricordarmi, però, che i sogni è meglio inseguirli con la macchina, fu mia madre, che aveva preso la patente molto tardi e non voleva che ripetessi il suo stesso errore.
“Andrai a scuola guida e prenderai la patente!” disse in tono imperante.
“Mamma, io con le marce non ci capisco niente…”
“Devi ascoltare il ruggito del motore: è lui a dirti quando cambiare, basta premere la frizione e il resto è fatto.”
“Non è il pedale della frizione che mi preoccupa, sono gli altri due, freno e acceleratore che mi confondono.”
“Questo è un problema figlia mia…”
“Anche papà si è rifiutato di farmi da istruttore: qualcosa vorrà dire, ti pare?”
“Ascolta: dopo aver passato l’esame di teoria, farai qualche lezione di guida in più e prenderai la patente la patente come gli altri.”
La sua premunizione si avverò: qualche mese più tardi presi la patente, ma il numero delle lezioni di guida  — quelle in più che lei stessa mi aveva suggerito — erano state tante, tante di più.
C’era chi era riuscito a passare l’esame di guida con appena dieci lezioni, chi con quindici, la maggior parte dei ragazzi con cui avevo iniziato se l’era cavata con una ventina. Io avevo battuto il record della regione Emilia Romagna: dovetti farne sessanta per prendere la patente. Due fogli rosa, due istruttori e due macchine diverse. E la mattina dell’esame, quando mi chiesero la partenza in salita, su per una strada di montagna, soffrendo di mal d’auto, chiesi all’esaminatore di scendere a vomitare prima di effettuare la manovra.
Sarà stata la tensione.
Me l’ero sudata quella patente, più di tutti gli altri, e mi sarei fatta rispettare, sempre.
Oggi, che guido da più di vent’anni, quando sono al volante mi sento un giustiziere: non c’è giorno in cui non pensi
ai neo patentati e alle loro difficoltà, e suono il clacson se chi mi accorgo che qualcuno commette infrazioni: è così che succedono gli incidenti, ma chi ha preso la patente da un giorno non lo sa. — Anche se ha fatto sessanta guide.
L’ho sperimentato sulla mia pelle, ho tamponato tre volte e tutte e tre le volte ho tamponato delle Ford.
Le Ford in generale mi portano una sf**a pazzesca — mi scuso in anticipo con i lettori che hanno una Ford — ma negli anni, ho imparato che è bene mantenere anche più di una distanza di sicurezza da una Ford, specie se mi precede.
Prima del Covid19, i battibecchi per strada erano all’ordine del giorno, le bimbe che di solito sono le mie compagne di trasferta in auto, non le vivono benissimo, e non per il rischio di avere un’incidente, quello è niente rispetto alle mie reazioni esagerate nei confronti dei pirati della strada.
“Disgraziato! Guarda, guarda, tu dimmi se si può essere può essere così spericolati! Questo la patente l’ha presa per posta!
Gira quel volante! Sai fare una curva?
Il semaforo ha solo questi tre colori, pensi di partire?”
E siccome tra gli automobilisti non c’è possibilità di confronto verbale, ci piace esprimerci ugualmente con metodi alternativi. Uno su tutti: il linguaggio dei segni.
Giunte alla fine della tangenziale, al grande raccordo, alle bimbe viene la pelle d’oca. Una volta ho beccato Carola farsi il segno della croce.
“Scommettiamo che adesso questo pazzo che sta a destra mi taglia la strada per girare a sinistra? Cosa vi avevo detto?
“Ah ragazze! La prudenza non è mai troppa… questa è proprio una giungla d’asfalto…” dico asciugandomi la fronte come un campione di Formula Uno.
“Mamma attenta: una Ford!”
Deve essere per forza incompatibilità di carattere.
Ora la mia auto è in garage, sul parabrezza ci ho messo un cartello con scritto: #IORESTOINGARAGE #ORASONOPIUTRANQUILLO
Illustrazione: Valeria Terranova