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28 Mag

SOS casa

enrica alessi not for fashion victim

enrica alessi not for fashion victim

 

 

È

passata una settimana da quella proposta che ho accettato con entusiasmo, ma per qualche strana ragione, nessuno dei due ha ritenuto opportuno specificare il quando. È come se la decisione fosse presa, ma non fosse necessario definire modalità e tempistiche.
Le date si fissano in occasione dei matrimoni, non per le convivenze, e ora che anche Britney è d’accordo con me sulla location, non posso certo trasferirmi.
La data del party è fissata fra tre settimane e anche se dovrò aspettare, con tutte le cose che mi restano da organizzare, non me ne accorgerò neppure.
Lunedì sono passata dalla Falegnameria a controllare le cicogne: fatta eccezione per qualche piccola incisione, erano ancora gli stessi tronchi che ho visto sul furgone — ma in posizione verticale.
È vero che non si può mettere fretta all’arte, ma Thor sembra più il dio del tuono che il mago dell’intaglio. Continuo a sostenere che un Geppetto mi sarebbe stato più utile, ma sto per imparentarmi con l’altro — seppure indirettamente — e non posso sottrargli l’incarico. Non mi resta che sperare.
A compensare quello che potrebbe sembrare un intoppo sulla mia tabella di marcia, è la risposta di Jerôme, ricevuta lo stesso lunedì.
Ammetto di aver dovuto rileggerla un paio di volte, ammetto anche di essermene meravigliata a tal punto da fare uno screenshot, ma quando ho realizzato che stava dicendomi che verrà, ho avuto un mancamento.
Si toglierà il gesso la prossima settimana e metterà la coroncina per raggiungerci.
Non so dire quanto ciò mi renda felice, so soltanto che tutto dovrà essere perfetto, anche il mio diorese. Ma non è quello a preoccuparmi, ho già cominciato a studiare, mi sto appassionando alla vita incredibile di Christian Dior, è questa casa il vero problema.
Mi guardo intorno, cerco di valutare quante ore mi serviranno per ripulirla. Cassandra se n’è andata solo da un mese, come ho potuto ridurla in questo stato? Ne convengo che un’impresa di pulizia mi farebbe risparmiare tempo e fatica, ma così non avrei modo di mettermi alla prova. Sarò io a fare di questa casa la location di un party perfetto.
Max rimane da Lolita fino a domani, Luca passa a prendermi stasera, ho tutto il pomeriggio, posso e devo farcela.
Mi sforzo di ricordare la posizione dell’aspirapolvere e non so dire se possa essere la mia memoria a fare cilecca, o se davvero non l’abbia mai usata in vita mia.
E non è solo l’aspirapolvere che non riesco a trovare, anche il divano non so dove si sia nascosto. Potrebbe essere là: sotto la pila di panni da stirare.
Faccio un bel respiro, porto le maniche del pigiama dietro ai gomiti e sono pronta a combattere, quando d’un tratto, il mio sguardo si posa sulla libreria che sta dietro di me. La quantità di polvere è impressionante, ma non è lei a turbarmi.
Di fronte a quei libri di moda, che Cassandra sembra aver lasciato lì per me, mi pare di vederla. Di vedere la sua perseveranza nello stimolare in me quel desiderio di conoscenza, mi sfugge un sorriso. E anche una lacrima.
Sto lasciando questa casa per trasferirmi da Luca: una fetta della mia storia sta per finire, e non mi basta sapere che ne comincerà un’altra.
Questo appartamento mi ha offerto l’opportunità di crescere, di condividere un pezzo di vita con una persona speciale e di avere Max come mascotte di famiglia.
È difficile lasciare andare i ricordi, specie se si tratta di quelli che ancora ti circondano, facendoti sentire al sicuro.
Devo reagire.
Sono al centro del salone e mi sento come un generale sul campo di battaglia.
Lo sguardo, fisso verso il basso, perlustra ciò che giace a terra senza vita: una matassa di peli di cane, un Dentastix morsicchiato, un paio di pantafole scucite e il libro di Jerôme: New Looks.
Anche Dior, che non era un generale, sarebbe impallidito di fronte a questo casino.
Ma ai suoi occhi, posso ancora riscattarmi. Ho iniziato a leggere la sua storia e nell’incipit, assomiglia a una che già conosco.

Christian Dior nasce a Granville nel 1905, è figlio di un industriale. Non sa ancora nulla del destino che lo attende, ma sarà lo stesso destino, il caso, a condurlo al successo.
È solo un ragazzino di quattordici anni, quando nella sua città viene organizzata una fiera di beneficenza destinata a raccogliere fondi per i soldati. È travestito da zingarello e cerca di vendere amuleti e portafortuna. Alla fine della giornata, mentre sta tornando a casa, una chiromante si offre di leggergli la mano.
Gli rivela che si troverà senza denaro, ma le donne lo aiuteranno: da esse trarrà grandi profitti. Saranno le stesse a mostrargli il successo e le terre oltre oceano.
Christian non dà importanza alle sue parole, ma una volta tornato a casa, ripete la predizione ai genitori.
Ogni singolo riferimento è inverosimile. Christian è un ragazzino timido che fa una tragedia anche solo per uscire con gli amici, una traversata oceanica, in compagnia di donne, è ciò di più improbabile. E arricchirsene? In che modo? All’epoca, trarre profitto dalle donne non era certo riconducibile all’alta moda. Per non parlare della minaccia di povertà, che innesca ilarità generale.
Gli anni passano e Christian asseconda il desiderio dei genitori frequentando Scienze Politiche, ma come da copione, lascia gli studi.
Inizia a manifestare le sue attitudini artistiche nel 1928, grazie all’aiuto finanziario del padre che gli consente di aprire una piccola galleria d’arte.
Il sogno si infrange pochi anni più tardi.
La predizione della chiromante era corretta: il crollo dell’azienda di famiglia lo costringe a chiudere la galleria.
È nel 1937 che Dior inizia a lavorare come stilista da Robert Piguet. Rimane per due anni, finché non viene chiamato per il servizio militare, per poi passare, nel 1942, alla casa di moda di Lucien Lelong, insieme a Pierre Balmain.
Christian è felice, si sente appagato. Una carriera stimolante senza il peso e le responsabilità di un ruolo dirigenziale.
Una vita tranquilla è quello che gli serve, dopo ciò che ha passato. Calma, anonimato, silenzio.
I disastri della guerra sono sotto gli occhi di tutti: le restrizioni, il mercato nero e una moda detestabile. Uno stile insapore che cerca di imitare quello americano, facendo i conti con l’austerità imposta dal regime. Eppure, il caso ha sempre l’ultima parola.
Christian sta camminando sul marciapiede di una via in cui aveva abitato, in cui spesso giocava con un amico, da lontano gli sembra quasi di vederlo, ma non è il miraggio provocato da un ricordo: anche lui alza le braccia al cielo e benedice la fortuna di quell’incontro.
Non si vedono da anni, ma sono a conoscenza delle rispettive carriere. Lui è il direttore della casa di moda Gaston e informa Christian che il proprietario, Monsieur Boussac, vuole rinnovarla da cima a fondo e cerca un modellista capace di conferirle un nuovo spirito. Lui risponde che purtroppo non conosce nessuno che risponda a quei requisiti, e di certo non vuole proporre se stesso. Ma il caso si ostina e i due si incontrano una seconda volta sullo stesso marciapiede. L’amico non ha ancora trovato la persona che cerca, eppure, entrambi non considerano la possibile candidatura di Christian come la più logica delle soluzioni. Fino a che, Balmain, che come lui è modellista da Lelong, decide di licenziarsi per creare una casa di moda tutta sua.
In quel momento, Dior realizza che la vita tranquilla che conduce frena le sue ambizioni personali. Nonostante l’ambiente lavorativo sia piacevole, non riesce a esprimersi come vorrebbe, asseconda un gusto che non è il suo. E quando per la terza volta, incontra l’amico sullo stesso marciapiede, decide di proporsi.
Percepisce via via in che avventura si sta imbarcando, la parola affari lo terrorizza, ma ormai è deciso a saperne di più. L’amico gli fissa un appuntamento con il braccio destro di Boussac: Monsieur Fayol.
Anche lui, come Dior, ama la buona tavola e si mostra gioviale. Ha un’idea precisa della donna elegante, e altrimenti non potrebbe essere: è sposato con Nadine Picard, una delle icone del buon gusto. Seppure Christian abbia uno scarso interesse per gli affari, ciò non gli impedisce di ragionare con buon senso. Non vuole sembrare il classico figlio di papà, vuole mostrarsi come un uomo responsabile, desideroso di gestire questa grande opportunità.
Al termine dell’incontro, entrambi sono contenti l’uno dell’altro, concludono che il passo successivo sarà una visita alla casa di moda Gaston, in cui si reca tre giorni più tardi.
Tutto ciò che vede è irrimediabilmente vecchio, datato. La vanità della sua impresa lo spaventa. Il solo pensiero di correre tanti rischi, di sollevare tanta polvere, di dover affrontare un personale refrattario ai cambiamenti, lo sfinisce in partenza. È convinto che non possa nascere qualcosa di nuovo da qualcosa di vecchio, specie nella moda che si rinnova continuamente.
Dice che ci penserà, ma non ha dubbi, rifiuterà l’offerta e la cosa lo rende felice: non dovrà preoccuparsi del licenziamento, tantomeno delle pratiche burocratiche. Rimarrà nel suo piccolo mondo con le persone a cui vuole bene, mantenendo la sua routine confortevole.
Il giorno seguente, Dior si reca da Gaston, sa che non se ne farà nulla, ma la persona e l’ambiente che lo accolgono gli fanno subito un’ottima impressione. I due cominciano a parlare, Christian si accorge che Boussac non è solo un grande uomo di affari, è colto, è potente, discute con competenza di diversi argomenti, e lì, in quella stanza, seduto di fronte a lui, Dior inizia ad avere la percezione chiara di un progetto.
La timidezza si trasforma in un eccesso di eloquenza di cui lui stesso si stupisce. Dichiara di non avere alcuna intenzione di resuscitare una vecchia casa di moda, al contrario, sogna di creare una maison tutta sua, un piccolo studio artigianale in un quartiere di buon gusto.
Disegnerà modelli apparentemente semplici, ma dalla confezione elaborata. I mercati stranieri, dopo la lunga stagnazione della moda provocata dalla guerra, avranno necessità di soddisfare una clientela esigente e raffinata e di tornare al lusso dell’alta moda francese. I suoi modelli, oltre a essere qualcosa di mai visto, saranno confezionati seguendo le rigorose tradizioni artigianali.
Il suo interlocutore lo ascolta con interesse, dice che il progetto proposto, oltre a essere ambizioso, è molto diverso da ciò che aveva in mente, ma il suo punto di vista è interessante, vuole pensarci.
Seguono alcuni giorni di incertezza, poi Fayol riferisce che Boussac è propenso ad accettare la sua proposta. Quella risposta positiva, invece di rallegrare Dior, lo dispera. Dovrà comunicare a Lelong che sta per andarsene, le pressioni diventano sempre più pesanti ed è allora che decide di tornare dalla stessa cartomante che gli aveva predetto il futuro a quattordici anni.
Madame D. gli ordina di accettare.
“Lei deve creare la maison Christian Dior! Quali che siano le condizioni di partenza, tutto ciò che le sarà offerto un domani non è paragonabile all’occasione di oggi!“ Di fronte a tanta sicurezza, lo stilista non può fare altro che rassegnarsi e obbedire.
Prima di lasciare il posto di lavoro, si consulta con Madame Raymonde, era stata la prima ad accoglierlo da Lelong, è un’amica fidata, una consigliera intelligente, un angelo custode. Appena le rivela la sua decisione, lei si mostra entusiasta e pronta a seguirlo; convince un’amica a consultare un’altra veggente importante, soprannominata Grand-Mère e anche lei sostiene che la maison Dior rivoluzionerà la moda. Aggiunge altre cose, una più straordinaria dell’altra a cui nessuno osa credere, ma il suo verdetto diventa il pretesto per affrontare la situazione e dire addio a quella vita tranquilla.
Christian si reca da Lelong, malgrado le offerte e la profonda amicizia che li lega, lui rimane fedele alla sua decisione. Lo stilista gli concederà altre due collezioni per lasciargli il tempo di trovare i sostituti e instradarli sul lavoro, e alla fine di quel periodo, Dior sarà libero di andarsene.
Al dispiacere di lasciare un datore di lavoro e un amico carissimo, segue il pensiero di trovare la sede.
Diversi anni prima, passeggiando lungo Avenue Montaigne con un amico, Christian rimane folgorato dalla bellezza di due palazzine, collocate rispettivamente ai civici 28 e 30 di quella via deliziosa. Ne adorava le proporzioni ridotte, l’eleganza sobria priva di eccessi e il fatto che, inconsapevolmente, coincidesse con la descrizione fatta a Boussac, durante il loro primo incontro.
Dior decide di affidarsi ad alcune agenzie che gli forniscono due indirizzi nello stesso quartiere. Le sedi proposte sono bellissime, ma lui non riesce a decidersi. Quei palazzi non hanno l’aspetto discreto che aveva immaginato, ma anche questa volta è il caso a smuovere la situazione.
La modista che occupa la palazzina al numero 30 sta per chiudere: a Dior non resta che rilevare il contratto di affitto.
Dopo aver selezionato lo staff che lo supporterà durante la mirabolante impresa, Christian non dimentica di assumere un esperto di pubblicità.
Ma chi crede che il successo della maison sia provocato dai massicci investimenti pubblicitari, si sbaglia. Il modesto budget iniziale di cui Dior dispone non gli permette di investire un centesimo. È convinto che sarà la qualità dei suoi abiti a renderla famosa e quel mistero, di cui si è circondato dall’inizio, scatena la migliore delle pubblicità: un efficace passaparola fatto di chiacchiere, pettegolezzi, maldicenze.
Il primo dicembre del 1947 è l’ultimo giorno di Dior da Lelong, riunisce il personale, si congeda con affetto e malinconia, ma durante quell’incontro, riceve una telefonata dal Sud della Francia: suo padre è venuto mancare.
Di colpo, quell’episodio mette fine alla sua giovinezza per la seconda volta. Quando non si è più figli, quando l’apparente fragilità dei genitori viene meno e ci si vede costretti a diventare il sostegno di quelli che verranno, non resta altro che diventare adulti.
Dior decide di inaugurare la casa di moda il quindici dicembre del 1947. Ha quarantadue anni. Si ritira per un paio di settimane a Fleury-en-Bière, nel cuore della foresta di Fontainbleau tutta innevata. Durante il periodo che precede tale data, la mente di Christian si popola di sagome fugaci simili ad apparizioni, che vengono fissate a matita sui fogli. Accumula, scarta, chiarisce ciò che non gli piace, ciò che vuole tenere.
È consapevole di dover conquistare il favore di un pubblico, ma non ambisce a rivoluzionare la moda, desidera realizzare con onestà gli abiti che ha sognato, senza immaginare che quella formula modesta di serietà artigianale, sarà la base di una collezione che tutto il mondo conoscerà con il nome di New Look.

Il caso non si cura del tempo che passa, non importa come, non importa quando, torna a cercarci perché il destino possa compiersi. E i talenti, che sono doni celesti, non possono essere sprecati.
Seppure la mia parte complottista senta il desiderio di mostrarsi scettica e considerare l’eventualità che siano ragione e necessità a influenzare il corso destino, l’altra, si lascia plagiare dal fatalismo, imponendomi di considerare che probabilmente, anche Luca potrebbe sentirsi come Dior si era sentito.
La vita tranquilla che ora conduce accontenta il desidero di calma, anonimato e silenzio che il suo passato gli ha tolto. La campagna possiede tutti i requisiti. Ma se fosse solo un rifugio in cui nascondere le apparenze e il desidero di ambizione personale? Se domani si svegliasse e il caso gli suggerisse di trasferirsi per realizzarsi come musicista? Se io e questo posto cominciassimo a stare stretti?
Sto esagerando? Mi sto preoccupando senza ragione? Può essere, ma per non correre rischi, prometto che quando sarò madre non tarperò le ali dei miei figli.
Mi dirigo verso la cucina alla ricerca dei detersivi — quelli giurerei di averli visti sotto il lavello — e alla parola ‘figli’, si materializza una scena nella mente: vedo me proiettata nel futuro.
Vivo ancora in questa casa, ho un’aria un po’ sciatta, i capelli legati e un grembiulino sporco di sugo. Ci sono due bambini seduti sul seggiolone, presumibilmente gemelli, vista la somiglianza, e usano il cucchiaio come catapulta per tirarsi la pappa.
Loro ridono, io un po’ meno, Max mi guarda con compassione.
È l’odore misterioso che sento nell’aria a riportarmi al presente. Strano: la cucina è in ordine. Dopo l’esperienza del tonno, ho mangiato a casa una volta soltanto, con un take-away, e ora mi spiego cos’è questa puzza: proviene dalla spazzatura.
L’immagine dei gemelli omozigoti mi si ripropone, è evidente che l’inconscio mi stia ricordando che i miei figli non meritano di vivere sepolti dall’immondizia.
Mi avvicino allo sportello che vorrei fare esplodere. Non oso immaginare quali forme di vita mi stiano aspettando in quel sacchetto abbandonato da chissà quanto, la sola cosa che mi consola è sapere che peggio di così non può andare. Ma prima che la combriccola di neuroni concluda il pensiero positivo, il campanello suona.
In questa casa sembra che sia esplosa una bomba, non so chi possa essere, ma qui non può entrare. Fingerò di non esserci. Mi precipito verso la porta, guarda dallo spioncino, la vedo.
A volte sono piccoli episodi che cambiano la direzione della nostra vita, una semplice circostanza, un momento accidentale che compare all’improvviso come un meteorite che colpisce la terra: mia madre.
Perché passa a trovarmi di domenica pomeriggio?
Forse è venuta a recapitarmi di persona, la partecipazione che avevo promesso di passare a ritirare in settimana.
Lei e il suo essere così precisa!
Se mette piede qui dentro, le verrà un infarto.
Continuo a guardarla dallo spioncino, è dietro al cancello del giardino e aspetta che si apra. Allunga la mano per spingerlo e lui si spalanca. Dannazione.
Comincio a pensare che potrei essere stata io a far fuggire Max.
Mia madre si incammina verso il vialetto, sale i gradini e bussa alla porta.
I colpi delle sue nocche mi fanno sobbalzare, indietreggio di un passo, resto immobile.
“Melissa…”
E in silenzio.
“C’è la tua macchina parcheggiata qui fuori… sono la mamma.”
Quella parola, pronunciata così: in tono affettuoso, con l’enfasi che usava quando ero bambina, mi induce ad arrendermi, ad aprire la porta.
“Ciao mamma.”
La sua espressione sconvolta lascia intendere che stia valutando le possibili cause di quel disastro. La vedo lavorare di fantasia e arriva alla conclusione.
“Hai chiamato la polizia?” esordisce entrando mentre mi abbraccia.
“Perché?”
“Ti hanno rapinata?”
Sta per mettersi a piangere. Vorrei farla sedere e tranquillizzarla, ma non saprei dove. Decido di condurla in cucina, nella peggiore delle ipotesi, verrà stordita dalla puzza e mi sverrà tra le braccia.
La adagerò per terra: è il posto più pulito che posso offrirle, e quando si riprenderà le spiegherò che la casa versa in questo stato solo per pigrizia. Ne morirà comunque.
Non mi resta che giocare il jolly: l’autografo di Ron.
“Mamma vieni, andiamo in cucina.”
Si sfila il cappotto, lo mette sotto il braccio, e afferra il mio.
Mi volto con un sorriso commosso e dico: “Ho un regalino da parte di Ron.”
“Sono stati i rom?” chiede terrorizzata.
“No, mamma, ho un autografo di Ron.”
“Ron il cantante?”
Sta per sanguinarmi il naso.
“Mettiti seduta.” dico sfinita, sfilando la sedia da sotto il tavolo.
Mia madre si accomoda, io vicino a lei, poso la mia mano sul suo avambraccio,
ma prima che possa rivelarle la sorpresa, lei mi interrompe.
“Melissa, cos’è questa…”
“Puzza?” suggerisco. “È solo un take away che ho dimenticato di gettare, è lì da due settimane.” concludo con fierezza.
“È colpa mia…”
Lo sapevo.
“Avrei dovuto importi quelle due ore a settimana di faccende domestiche…”
“No mamma, tranquilla…”
“Questa casa versa in uno stato catastrofico e mi sento responsabile.”
“No, non ti preoccupare!” dico in tono perentorio cercando di distoglierla da ciò che ci circonda. “Torniamo a noi…”
“Quindi…” riprende sospirando. “Sei stata al concerto di Ron e gli hai chiesto un autografo per me, ma amore: a me non piace Ron…”
Ora basta. Facciamola finita.
“Mamma, ho visto Ron Moss, il Ridge di Beautiful e gli ho chiesto un autografo per te.”
“Hai visto Ridge?” chiede stupita.
Nudo per essere esatti.
“Dov’è l’autografo?”
Giocarmi quel jolly mi ha fatto vincere la partita. Recupero la borsa che è appesa all’attaccapanni, apro la tasca interna e afferro il cartoncino del desiderio. Glielo porgo, lei si illumina.
“Che pensiero carino! Grazie… come hai fatto a incontrarlo?”
A questo non avevo pensato. Mia madre non sa nulla della mia storia con Luca, ma se non le racconto la parte che ho volutamente evitato di esternare, mi affibbierà una relazione con Ron Moss, e nel vicinato non si parlerà d’altro.
“Be’, ho un ragazzo e lo scorso weekend siamo stati in un resort, dove c’era anche Ron Moss.”
“Amore! Me lo dici così?” chiede emozionata. “E com’è?”
Chi? Luca o Ron Moss?
“Come si chiama?
“Si chiama Luca, ha una fattoria qui vicino.”
“Come lo hai conosciuto?”
“Una delle sue mucche aveva difficoltà con il parto, io l’ho aiutata a far nascere il vitellino.”
“Che storia romantica…” mormora.
Solo perché non sa che fine ha fatto il cappotto di Cassandra.
“Mi piacerebbe che tu e papà lo conosceste.”
Mia madre si illumina di nuovo: più di quanto non si fosse illuminata prima con l’autografo.
“Davvero? Allora è una cosa seria…” conclude incalzante cercando la mia approvazione.
“Sì mi piace. È un bravo ragazzo, sono sicura che piacerà anche a voi…”
E mentre rifletto che anticiparle la possibile convivenza potrebbe provocare danni irreparabili. Lei si acciglia.
“Se davvero è una cosa seria, non posso permettere che tu tenga la casa in questo modo. Presto sarai mamma e i tuoi figli non meritano di vivere sepolti dall’immondizia.”
Ho già sentito questa frase.
Vorrei precisare che nessuno ha ancora parlato di figli, ma seppure stia ostinandomi a scansare questa idea, la mia mente fa un balzo nel passato e ripesca l’immagine elaborata poco fa: che proietta me, nel futuro, in questa cucina con due bambini.
“Mamma, i bambini al momento non sono previsti, questo chiariamolo, ma per quanto riguarda ordine e pulizia non posso darti torto.”
Sembra che le mie parole abbiamo fatto breccia: mi ascolta con interesse.
“Prima era Cassandra a occuparsi della casa e ora tocca a me: devo prendermi le mie responsabilità.”
E mentre mi sorge il dubbio che anche Cassandra potrebbe essere sepolta là: sotto ai panni dai stirare, quasi senza accorgermene, aggiungo: “A proposito, abbiamo dei gemelli in famiglia?”
Mia madre si illumina di nuovo: vorrei spegnerla. Mi rendo conto che la mia domanda possa alimentare false speranze, ma la storia dei bambini e dell’immondizia non mi dà pace, devo sapere se sto avendo una premonizione.
“Sì, i cugini di tuo padre sono gemelli.”
Deglutisco.
“Sicura che non devi dirmi altro?”
Sbatte le palpebre mentre me lo domanda.
“Non sono incinta, se è questo che vuoi sapere. Davvero, te lo direi!”
“Sicura?”
“È imbarazzante… lo capisci, no?”
“E allora forza, diamoci da fare!” suggerisce alzandosi. “Devo darti una mano, sono pur sempre tua madre.”

Dopo tre ore, la casa è tornata uno specchio. Mia madre si infila il cappotto, prende la borsa e lascia la partecipazione sul tavolino dell’ingresso. Mi raccomanda di rispondere.
Si avvicina per darmi un bacio, apre la porta e si incammina verso il cancello, che chiude con cautela, prima di salutarmi ancora una volta.
Torno in casa: è bello sapere che il divano è dove è sempre stato. Amo questa casa, è come Cassandra l’ha lasciata: mi si stringe il cuore.
Luca passa a prendermi tra mezz’ora, corro a prepararmi.

 

CINQUANTESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova