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1 Apr

Missione cicogne

not for fashion victim enrica alessi

 

 

enrica alessi not for fashion victim

S

uccede raramente che medico e paziente siano emotivamente coinvolti e stavolta è toccato a me. Ma la paura è la più antica e potente delle emozioni e quella di sbagliare può provocare danni irreparabili.
Ciò che ci aspettiamo raramente accade: ma ciò che meno ci aspettiamo di solito succede.
Non è difficile immaginare la reazione del dottore. Forse nemmeno vorrà credermi quando glielo dirò, ma non ci sono parole per descrivere cosa provo: questa è stata l’operazione migliore di tutta la mia vita. Lolita è salva.
La guardo: è ancora sotto sedazione, ma è fuori pericolo e sono fiera di me.
Esco dalla sala operatoria sorridendo e raggiungo il dottore per dargli notizie. Lo ritrovo sulla stessa poltrona: legge il giornale. Mi avvicino, si accorge di me, solleva lo sguardo.
“Com’è andata?” chiede alzandosi.
“Abbiamo riposizionato l’utero, chiuso l’apertura e il ritmo fetale è stabile.
Quando sarà il momento, partorirà con un cesareo e presto si ristabilirà.” dico felice.
Il dottore mi abbraccia.
“Grazie Melissa. Grazie.”
“Non mi ringrazi, nessuno può vivere senza Lolita, tantomeno Max.”
“Dovrà restare qui stanotte?”
“Sì, preferirei tenerla sotto osservazione almeno un paio di giorni, ma possiamo svegliarla, a Lolita farà piacere vederla.” dico incamminandomi.
E dopo un’altra scena romantica che difficilmente dimenticherò — dove Pietro Savastano abbraccia e bacia Lolita, mentre lei scodinzola — accompagno il dottore all’uscita.
“Io sono sempre qui, la terrò aggiornato.”
“Grazie. Grazie ancora.”
Mi stringe la mano, si congeda, io rimango con un sorriso stampato sulla bocca: credo sia questa tenerezza che aleggia nell’aria.
Torno dentro, Britney sta uscendo dal suo ambulatorio.
“Stavo cercando proprio te.”
La solita fortuna.
“Lolita come sta?”
“Bene, grazie, stavo andando a controllarla.”
“Senti ho chiamato quelli della Limousine-Streaptease e dicono che Tony non lavora più per loro. Ho scelto Gerry. Ti piace?” chiede mostrandomi di nuovo il volantino.
Lo prendo, lo accartoccio e me lo infilo in tasca. Poi la guardo negli occhi e dico:
“Non ci sarà mai — e ripeto mai — un party con uno spogliarellista in una Limousine. Okay?”
“E se tenessimo solo la Limo?”
Sono già arrivata a metà corridoio mentre glielo sento dire. Alzo l’indice della mano destra, lo faccio oscillare da destra a sinistra, da sinistra a destra.
“Ho detto no.”

Lolita sta meglio, il battito fetale rimane stabile e forse dovrei farmi ricoverare pure io: sono distrutta.
Ma c’è ancora una cosa che mi resta da fare. Dopo questa giornata, devo sforzarmi di essere costruttiva — anche in senso letterale — ecco perché manterrò la mia promessa e andrò alla Falegnameria a ordinare le cicogne. Sarà comunque un modo per tenere caldo Jerôme.
Sono le sei quando esco dalla clinica.
Infilo la mano nella borsa, recupero il foglietto su cui sta scritto l’indirizzo e lo imposto sul navigatore del telefono.
Dista dieci minuti, mi metto in marcia.
La Falegnameria è nella zona industriale, immaginavo un’insegna intagliata in un grande tronco, appeso a due funi, ma la mia idea è troppo nature: al suo posto ce n’è una luminosa, il nome è scritto in corsivo e su entrambi i lati ci sono due alberi che sorridono.
Non credo abbiano quell’espressione felice prima di essere tagliati, ma il marketing è tutto.
Attraverso il cortile e raggiungo l’ingresso.
Entro e il profumo di legno mi ruba un sorriso: sembra di essere nella casa di Babbo Natale. Sulla destra è esposto un tavolino circolare con quattro seggioline, è verniciato di rosa e sul dorso di ognuna c’è un orsacchiotto dipinto che tiene in mano due birilli. Penso alla piccola Melissa e mi sembra di vederla mentre fa merenda con le sue amichette. Deve averlo.
Ma a ricordarmi il vero motivo della mia visita è il commesso che vedo dirigersi verso di me, mi raggiunge e mi chiede:
“Come posso aiutarla?”
È un signore piccino, di corporatura robusta, porta una salopette celeste e un caschetto giallo: è la versione più anziana di Manny Tuttofare — con qualche chilo in più.
“Buonasera, ho letto sul vostro sito che realizzate oggetti su misura…”
“Infatti.”
“Io vorrei due cicogne di questa grandezza.”
Il palmo della mano si posiziona all’altezza delle costole incrinate, ma il signore mi guarda con un’espressione traducibile in: ‘non starà scherzando, vero? Qui non facciamo le cicogne. Siamo professionisti.’
Abbasso il braccio, lo lascio scivolare lungo il fianco. Forse dovrei spiegargli il mio caso: tutti hanno bisogno di un caso umano per sentirsi utili. E il mio lo è.
“Senta, so che la mia richiesta può sembrare insolita, che siete abituati a progettare cose più grandi, ma le cicogne mi servono per una festa, la festa di una bambina che sta per nascere, e vorrei che mi aiutasse.”
Meriterei un Oscar: nessuno rifiuterebbe di dare una mano a questa brava ragazza.
“Mi dispiace.” mormora “Purtroppo non intagliamo animali.”
“E questo?” lo interrompo.
Indico il tavolino rosa: se può fare questo e quattro sedie con l’orsacchiotto, può fare anche un paio di cicogne.
“Oh, quello! Lasci perdere: lo avevamo fatto su ordinazione, una signora, per la festa di compleanno della figlia.
Sono passati tre anni e non è mai venuta a ritirarlo. ”
“Lo compro io.” dico decisa. “A patto che mi faccia le cicogne.”
E mentre cerco di convincerlo con sguardo supplichevole, sento un tintinnio: qualcuno è appena entrato.
Mi volto e vedo un ragazzo con la stessa salopette del signore che sto implorando.
Ma è un po’ diverso: è uno schianto.
Sarà per il martello che tiene in mano, ma mi ricorda Thor — anche se il caschetto è senza ali — e di fronte a cotanta bellezza, la mia bocca si spalanca.
“Ciao.” mi dice.
Ha anche una bella voce: è finita.
Penso a un po’ di cose brutte: alla fame nel mondo, all’inquinamento globale, alla mia cellulite. Di solito funziona quando mi sento inspiegabilmente attratta da qualcuno, mi toglie dall’imbarazzo. E poi non è questo il momento per un colpo di fulmine: sono qui per le cicogne.
“Ciao, ho già chiesto al signore…” dico indicando Manny Tuttofare che sta dietro di me.
“Alessandro, la signorina vorrebbe due cicogne.”
“Due cicogne?”
“Sì… mi servono per una festa. La mia migliore amica aspetta una bambina e vorrei farle una sorpresa.”
Lui mi guarda con uno strano sorriso. Mi sento avvampare.
“Quanto grandi?” mi chiede.
La mia mano si riposiziona piena di fiducia all’altezza delle costole incrinate. Sorrido.
“Grandi così.”
Thor guarda Manny, si toglie il caschetto,
e sospira.
“Dice che sarebbe disposta a comprare il tavolino.” interviene Manny.
“Ah sì?” domanda divertito.
“Ma solo se facciamo le cicogne…”
Sto assistendo al loro scambio di battute quasi fossi lo spettatore di una partita di tennis, e mi chiedo chi vincerà.
Ora sono su di lui: i suoi occhi arrendevoli si spostano da Manny e vengono su di me: qualcosa mi dice che potrebbe accettare questa sfida.
“Per quando ti servirebbero?”
Resto lì a guardarlo. Tutto ciò che volevo sentirmi dire dall’inizio, improvvisamente non importa più. Sento solo il suono della sua voce calda e credo pure di avere un’espressione da ebete.
Contegno Melissa. Contegno.
Sei pure fidanzata. Rispondi alla sua domanda.
“Tra un mese.”
“Il tavolino costa cinquecento euro.” interviene Manny.
Ho capito: lui gestisce la parte finanziaria, Thor quella creativa. E seppure la sua valutazione economica mi porti a realizzare che tale cifra equivale a un settimo della borsa di Dior, non posso fare altro che accettare.
“Okay. Posso pagarlo subito e ritirarlo domani?”
“Perfetto.” conclude soddisfatto.
“Ma prima le cicogne, o non se ne fa niente.”
“Vieni con me, proviamo a capire cosa ti piacerebbe, vediamo delle foto.”
Alessandro mi fa cenno di seguirlo, cammina lungo un corridoio, si volta e mi indica un ufficio che sta sulla sinistra.
Entro e mi siedo di fronte a lui.
Il computer è sulla sua scrivania, pronuncia divertito la parola cicogna, mentre le dita cercano le lettere sulla tastiera. Poi ruota il monitor verso di me, mostrandomi le immagini.
La prima. La prima è meravigliosa.
Zampe arancioni, il manto è bianco e nero, e il becco sostiene uno splendido fagottino rosa da cui sbuca un bebè: la voglio.
“Questa sarebbe perfetta.”
La indico e già la immagino in grandezza naturale. È strepitosa.
Lui la guarda, la studia. Poi guarda me e dice: “per te potrei riuscirci.”
La faccia da ebete di prima è una principiante rispetto a quella che ho adesso. Giuro che se la mia storia d’amore finisce per colpa di due cicogne che Jerôme ha ordinato e lui non si presenta, non lo perdonerò mai.
“Lo spero. Sono molto importanti.” concludo alzandomi.
Guardo l’orologio fingendomi in ritardo: questo gli farà capire che non sto uscendo di fretta perché mi sento in imbarazzo.
“Quanto mi costeranno?” chiedo incamminandomi alla cassa.
“Pensavo a cinquecento euro per tutte e due: è un prezzo da amico.”
Non ci sta provando. Non ci sta provando.
“Okay. Grazie.” mormoro.
Mi avvicino al bancone, Manny è già dietro il registratore contabile e ha l’espressione di chi ha aspettato questo momento per tre lunghi anni.
“Papà, falle pagare solo il tavolino.”
Sapevo che era suo figlio, anche se non gli assomiglia.
“Le lascio anche un acconto per le cicogne. Insisto.”
Gli porgo la carta di credito, lui striscia e avverto un piccolo calo di corrente: settecento euro stanno dicendo addio al mio conto.
“Lasciami il cellulare, ti chiamerò appena sarà ora di scegliere i colori.”
Sto per dare il mio numero a uno degli sconosciuti più belli del pianeta e lo sto facendo per una buona causa: chi lo avrebbe detto che questa giornata si sarebbe conclusa in modo grandioso?
“Ragazzi, io vi saluto, devo finire un armadio in consegna domani.”
Manny si allontana e io resto sola con Thor. Gli lascio il mio biglietto da visita, lui lo prende e gli dà un’occhiata.
“Melissa Bigi.”
“Esatto.”
“Ti faccio preparare il tavolino per domani sera, okay?”
“Sì, grazie. Allora, a domani…” dico afferrando la maniglia per uscire.
Sono nel cortile, lo attraverso e mi precipito verso l’auto sostitutiva, realizzando che, seppure ne abbia sempre criticato l’aspetto, le sue quattro ruote mi condurranno lontano da questo luogo di perdizione più velocemente delle mie gambe: credo di non averla mai apprezzata tanto.
Salgo, metto in moto, fugga via.
Durante i dieci minuti di tragitto verso casa, trascorsi in quell’abitacolo silenzioso, ho l’impressione che la mia mente si sdoppi: se una parte del mio emisfero cerebrale è concentrato sulla strada — o si illude di esserlo — l’altra continua a pensare a quel colpo di fulmine, al suono della sua voce e al terribile senso di colpa che sento crescermi dentro. E mentre cerco di scansarlo, valutando che, in fondo, le emozioni sono indipendenti dalla volontà, Luca mi chiama.
Lo squillo del telefono suona come la ritirata militare che mi comanda di serrare i ranghi. Ed è lì, che ripenso alla fame nel mondo, all’inquinamento globale, alla cellulite, a Lolita e alla mia incredibile giornata.
“Ciao amore mio… non sai cosa mi è capitato oggi…”
A parte Thor, intendo.
“Passi da me? Ti ho fatto un regalo.”
Stavo occultando parte della verità — e della mia giornata — per arrivare dritta al dunque: alla mia operazione spettacolare, e lui che fa? Mi invita a casa sua perché vuole darmi un regalo. Potrei sentirmi peggio? Le mie emozioni dovrebbero tener conto di certe cose, invece di andare a zonzo come delle vagabonde.
“Davvero?” mormoro.
“Sì, ma in cambio voglio un bacio.”
E in quel momento Thor e il suo stupido martello si volatilizzano, scompaiono.
Ho bisogno di stare con il mio cowboy, ho voglia di abbracciarlo e di raccontargli di Lolita.
“C’è Max a casa, non lo vedo da stamattina, vieni tu da me… Devo raccontarti della mia operazione perfetta.”
“Voglio tutto nel dettaglio.”
“Okay.” dico sorridendo.
“Parto adesso, così porto fuori Max mentre tu cucini.”
“Tu cucini. Io porto fuori Max.”

 

QUARANTADUESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova