To top
3 Ago

Sicilia 1988

enrica alessi storie di ordinaria follia

enrica alessi storie di ordinaria follia

C

orreva l’anno 1988, quando mio padre decise di caricare la famiglia in auto per una vacanza studio in Sicilia.
Avremmo conosciuto la sua terra, i suoi parenti — tutti i suoi parenti: anche la zia Ciccetta — i dialetti e le bontà locali. Le ferie al sud non si possono fare senza i cugini e fu così che si aggregarono anche gli zii. La partenza era fissata per il tre di agosto, a mezzogiorno di fuoco. L’aria condizionata non esisteva e la mia proposta di partire con una borsa del ghiaccio sulla testa, non fu accettata. In compenso, mia madre aveva pensato al menu di viaggio, fornendo a mio fratello e a me, un sacchetto contenente tre panini con la cotoletta: una cosa all’emiliana, fresca e leggera. Arrivammo davanti a casa degli zii, alle dodici e zero quattro: loro erano già fuori ad aspettarci.Scesi dalla macchina, eccitata e al tempo stesso terrorizzata da quel lungo viaggio, ci sarebbero volute quasi ventiquattro ore per raggiungere la destinazione e la paura che mio padre fosse colto da un colpo di sonno, continuava a perseguitarmi. Avevo immaginato il momento in cui avrei evitato la tragedia, in cui tempestivamente avrei preso il controllo dell’auto, se fosse stato necessario, ma avevo solo dodici anni e non sapevo guidare. Mi rassegnai all’idea di mettere la mia vita nelle mani di mio padre e il colesterolo in quelle di mia madre, e smisi di pensarci. Abbracciai mio cugino, guardai per terra e vidi i pneumatici sciogliersi sull’asfalto rovente, le evidenti gocce di sudore sui volti di tutti e fui colpita dalla voglia irrefrenabile di chiedere: “scusate, perché non partiamo?”
Mi sentii osservata. Avevo detto qualcosa di sbagliato? Era chiaro che nessuno si sarebbe messo in marcia, senza prima aver mangiato un panino con la cotoletta. Lo mangiammo e partimmo. Mio padre era in testa. Mise le mani sul volante e lo vidi entrare nella parte: un pilota di Formula Uno con la fronte madida di sudore e lo sguardo concentrato sulla strada. Mio fratello stava per addormentarsi, io presi il walkman e mi misi ad ascoltare Joy Salinas.
Dopo le ‘soste pipì’ di Firenze e Roma, arrivammo a Napoli alle otto. La mamma aveva giustamente suggerito una pausa: una pausa pranzo. Il sole stava tramontando, presto sarebbe giunta la notte e dovevo salvare la mia famiglia. Il panino con la cotoletta poteva causare sonnolenza, ma mia madre disse che era un pasto completo, che una metà non mi avrebbe fatto niente. Mi lasciai convincere, presi quella con il pezzo di cotoletta più grande, ma mi fu fatale.
Ci rimettemmo in viaggio, sentivo gli occhi chiudersi, cercai a tutti i costi di non addormentarmi: se fossi rimasta sveglia a chiacchierare con papà, non saremmo mai bruciati tra le fiamme, e confortata da questo felice pensiero, feci coraggio al mio apparato gastrointestinale. Ma le energie si stavano esaurendo. Tutto il sangue era impegnato con i miei organi interni, a breve anche il cervello avrebbe smesso di riceverne e sarebbe andato in stand-by e io sapevo bene che più il pasto era grasso e proteico, più il coma sarebbe stato profondo. Mi svegliai la mattina dopo, con un cielo rosa e una canzone di Celentano. La mia buona volontà era stata sconfitta dalla doppia panatura della cotoletta, fritta in olio di arachidi e servita tra due fette di pane francese e su un letto di stagnola croccante. Papà, invece, era rimasto sveglio tutta la notte e arrivammo a destinazione sani e salvi. Capii ben presto, che il panino con la cotoletta sarebbe stata la cosa più leggera che avrei mangiato in quelle due settimane. Facevamo colazione alle undici, finivamo a mezzogiorno, a mezzogiorno e trenta era già ora di pranzo e alle quattro del pomeriggio, eravamo al dolce: la merenda. Capii anche che questa era una tecnica, niente era fatto per caso, perché le opzioni per fare il bagno al mare, a qualsiasi ora del giorno, erano due: o stare digiuno, o non smettere di mangiare affatto, per non fare iniziare la digestione: noi avevamo scelto la seconda. E per scansare il rischio di congestione, ci fu anche una gita alle terme di Segesta, le cui acque — cloro-solfato-alcalino-terrose — avevano una temperatura di 47 gradi centigradi: nessun bambino, neanche mio cugino che era il più incosciente, fece il bagno. Fu l’estate dei parenti che non avevo mai visto, del gelato di Cicciuzzu, di pane e panelle, pani câ meusa, stigghiole, pasta con le sarde, pasta con le fave, pasta con i melunciane, granite, arancini, cannoli, cassatine e tanta tanta tanta Citrosodina. Fu un’estate indimenticabile: ingrassai dieci chili. Tornai in Sicilia, dopo undici anni, dopo aver perso i chili di troppo e senza informare nessun parente, per paura che mi rimpinzasse come un tacchino, e per salvarmi, andai in aereo, senza panino con la cotoletta, in un villaggio vacanze a mezza pensione.

Illustrazione: Valeria Terranova