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7 Ago

Sicilia 1999 – Part 1

enrica alessi storie di ordinaria follia

enrica alessi storie di ordinaria follia

G

iaco: “ ho deciso la meta delle vacanze.”
Non aspettai nemmeno che mi chiedesse ‘quale?’ andai avanti da sola: “si va in Sicilia.”
“Ma hai sempre detto che si mangia troppo, che a fine giornata serve una lavanda gastrica, che i parenti ti prendono in ostaggio…”
“Questa volta sarà diverso.” lo rassicurai.
L’agenzia di viaggi mi aveva proposto l’occasione del secolo: due settimane in un villaggio Blu Club, appena costruito a Noto Marina — lontano dai parenti — e a un prezzo che potevamo permetterci, senza ipotecare reni e milza.
“Siamo cavie. Lo capisci questo, no?” disse un po’ scettico.
“Sei il solito esagerato. Sarà bellissimo.”
E prenotai, pregando il Signore che Giaco si sbagliasse. La partenza era fissata per il 7 agosto alle 14 dall’aeroporto di Orio al Serio. Fu Giorgio, suo padre, ad accompagnarci, sette ore prima del check-in, nove ore prima del decollo. Comprai l’edicola intera, quattro libri e dodici caffè, avevo già finito metà del budget destinato agli extra, ma mi consolai guardando l’orologio: lo shopping intellettuale compulsivo aveva tolto un’ora di attesa. La lettura di Vanity Fair e Vogue ne portò via un’altra e la biografia di Chanel altre due. Ne rimanevano tre e non sapevo come farle passare. Potevo dormire, ma come riuscirci prima di un decollo? Pensai a qualcosa che potesse causare sonnolenza e il panino con la cotoletta mi sembrò l’unica via di uscita. ‘Più un pasto è grasso e proteico più il coma è profondo’: questo me lo aveva insegnato il viaggio precedente, ne presi due, volevo essere sicura, e persi i sensi. Giaco, che era rimasto sveglio con le parole crociate e dopo un’ora, mi svegliò con un bacio. Cercai di riprendermi, ma il fegato affaticato affaticava anche me. Mi feci forza: sbadigliai e bevvi un po’ di acqua, mi convinsi che avrebbe aiutato i succhi gastrici in quella grande impresa e mi alzai dalla poltrona ferrosa su cui ero seduta: con onore. Feci due passi per sgranchire le gambe e diedi un’occhiata in giro e un’altra all’orologio: potevamo imbarcarci. Il trip della cotoletta non era ancora svanito, la mia lucidità cercava di farsi largo tra i numerosi sbadigli, ma non potei fare a meno di notare le persone che, come noi, stavano aspettando di fare i controlli. Età media: geriatrica. Aspetto: orribile. Simpatia: inesistente. E l’atroce presentimento che potessero essere i nostri compagni di villaggio, mi si palesò davanti. Anche Giaco aveva avuto la mia stessa impressione e come me stava scongiurando quella possibile eventualità.
“Se questi vengono con noi: immagina come può essere il villaggio…” mi disse, lasciando la frase in sospeso per lasciare a me il compito ingrato di trarre le conclusioni.
“Il fatto che stiano prendendo lo stesso aereo non significa che stiano per raggiungere lo stesso villaggio.”
Cercai di usare il tono più deciso che avevo in repertorio, nel tentativo di convincerci entrambi, poi, salii a bordo.
Ebbi l’assoluta certezza che mi sbagliavo, dopo aver ritirato le valigie, quando ci avviammo verso l’uscita e ci trovammo di fronte al pullman Blu Club. La grandi bande blu, incise di bianco, venivano frammentate da una fila di ragazzi con maglietta logata e collana di fiori, che ci dava il benvenuto. Chiusi gli occhi, per un attimo immaginai di essere finita per sbaglio alle Hawaii, ma mi bastò riaprirli per vedere in faccia il mio incubo: gli zombi ci avevano seguito e stavano salendo sul pullman con noi. La serie interminabile di “Io lo sapevo, te lo avevo detto!’ che Giaco avrebbe sussurrato per tutto il viaggio, mi fece venire voglia di dirottare il mezzo, ma alla fine, optai per costruire una realtà possibile con cui frenare i rimproveri del mio fidanzato. Il villaggio doveva essere diviso in settori: bambini, adulti e anziani. Lui mi toccò la fronte, guardandomi con un’espressione traducibile in: ‘Hai la febbre? Stai vaneggiando?’ ma non disse nulla, per tutto il viaggio, e anche io preferii tacere. Il paesaggio era angusto, una distesa di erba arsa dal sole, circondata da cactus. L’azzurro del mare, che si vedeva dai finestrini, sottolineava il contrasto delle sfumature giallastre che completavano il panorama, e nonostante l’aria condizionata del pullman, riuscivo a percepire il clima arido che stava all’esterno: mi sentii soffocare. Pensai a come uscire da quella situazione in cui ci eravamo cacciati a causa mia, ma non conoscevo il posto e l’alternativa di fuggire dai parenti mi sembrava addirittura peggiore. Due animatori, che erano rimasti in piedi vicino al conducente, cominciarono a battere le mani, a canticchiare un motivetto nel tentativo di coinvolgerci. Ancora non sapevo che quella canzone, di cui nessuno conosceva le parole, presto sarebbe diventata il nostro inno ufficiale, ma collaborai ugualmente, invitai Giaco a seguirmi, a battere le mani e sulle note di ‘con Blu Club tu vedrai la voglia di sorridere, la voglia di cantare…’ arrivammo al villaggio. Scesi dal pullman accompagnata da sentimenti contrastanti, che andavano dall’eccitazione allo sgomento, anche la faccia di Giaco sembrava trasmettere le mie stesse sensazioni e quando ci trovammo di fronte al grande alveare arancione che costituiva la struttura, rimpiansi i parenti, le arancine, le stigghiole, le panelle e la pasta con le sarde. Gli animatori ci mostrarono il villaggio: la piscina, il campo da calcio, quello da tennis e quello di beach volley, la zona teatro, in cui la sera si sarebbero tenuti gli spettacoli di cabaret, il baby club per i bambini che ancora non avevamo immaginato di concepire e la sala da pranzo in cui veniva servito il buffet. Il mare, la spiaggia. Niente riusciva a soddisfarmi. Il caldo torrido e la totale assenza di vento, mi fece passare la voglia di stendermi al sole per abbronzarmi, mi sentivo triste e sconsolata. Ci assegnarono la stanza, carina e decorosa, forse al di sopra delle mie aspettative, e cominciai a intravedere un briciolo di speranza in fondo a quel tunnel che sembrava volermi risucchiare. Mi convinsi che dovevo reagire, per il bene di entrambi, non potevo rovinare la nostra vacanza romantica già pagata. Guardai il letto e pensai a un diversivo piacevole. Giaco doveva aver avuto la mia stessa idea: lo vidi spogliarsi velocemente e riconobbi il fuoco della passione nei suoi occhi. Che importava se il posto non era come lo avevamo immaginato, eravamo soli, felici e innamorati: il resto non era importante. Chiusi gli occhi, cercando di attirare come una calamita ogni briciola di libido che la mia delusione aveva smarrito, e quando li riaprii, Giaco era in pantaloncini, maglietta e scarpe da ginnastica.
“Enri mi hanno appena reclutato per una partita di calcetto: scapoli e ammogliati: devo andare, ci vediamo dopo.”
Continua…

 

Illustrazione: Valeria Terranova