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9 Apr

J’ADIOR

enrica alessi not for fashion victim

J'ADIOR

 

 

 

L

uca è rimasto a dormire da me.
Mi alzo dal letto cercando di non svegliarlo, mi dirigo verso il bagno, socchiudo la porta alle mie spalle e lì, di fronte allo specchio, mi chiedo perché Thor gironzola ancora con il suo martello tra i miei pensieri. Il mio istinto materno — che forse non possiedo — dovrebbe dare la priorità a Lolita, ai cuccioli. E il mio ego dovrebbe continuare a sentirsi soddisfatto e mentalmente occupato, immaginando i difficoltosi passaggi di un operazione perfetta. Potrei pure aggiungere che la curiosità dovrebbe stimolarmi: visto che il regalo di Luca arriverà domani e non ho idea di ciò che possa essere. Ma a quanto pare, la sindrome del supereroe si è presa tutto lo spazio.
Afferro la fascia per capelli che sta nel solito cestino sotto il lavandino. Mi lavo il viso, sperando che l’impetuosa corrente d’acqua del rubinetto spazzi via tutta la Falegnameria. Ma due minuti più tardi, mentre stendo la crema idratante, sto immaginando il momento in cui lo rivedrò.
Sono eccitata e non posso farci niente.
Sono sicura, che dopo aver ritirato il tavolino, Thor sarà fuori dalla mia vita.
È vero: ci sono le cicogne, però non ci rivedremo nell’imminente periodo e durante l’attesa, lo dimenticherò. Sicuro.
E mentre mi accorgo di essermene uscita con la versione personale di ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’, mi sento triste.
So che non tradirei mai Luca, eppure non posso fare a meno di pensare che Thor ieri sera ha flirtato con me. Mi lusinga.
Mi sono sentita inadeguata tutta la vita e ora che ho qualche piccola soddisfazione, la mia autostima si sente in colpa.
Le donne sono strane, dovrebbero scrivere più libri sull’argomento. Il mio sarebbe: “Donne, Dududu, in cerca di guai.”
A questo punto il senso di colpa si espande, arriva fino al cassetto della mia scrivania: non ho ancora letto la dedica. Sono imperdonabile. Io non ce l’ho un cuore? Ma non è questo il momento di fare certe domande: ho cose più importanti a cui pensare. Devo prepararmi e portare fuori Max.

Ammetto che scegliere la mise mi ha portato via più tempo del previsto, ma sono riuscita a trovare qualcosa di carino.
Jeans skinny nero, maglione dello stesso rosa del tavolino, e décolleté con il mezzo tacco che ho comprato sabato mattina dalla Venere — durante un raptus.
La giornata da Grazia, la mise scelta per Cassandra, la borsa dei miei sogni sulla spalla di una scrittrice che nemmeno conosco e il forte desiderio, mescolato a convinzione, di meritare anch’io un pezzo di Dior mi avevano portato sul quel sito nella notte di venerdì.
Volevo vedere la borsa ancora una volta e accertarmi del prezzo. La premonizione del sogno non sbagliava: non potevo permettermela, ma non sarei uscita senza un premio di consolazione. Avevo adocchiato un paio di scarpe abbordabile, dovevo solo capire il numero che mi serviva. Ma la tecnologia, per quanto prodigiosa e in continuo sviluppo, non ha ancora inventato l’opzione: ‘provati le scarpe online’.
Peccato. O forse no. Il raptus mi stava suggerendo che anche Cassandra vende Dior nella boutique in cui lavora e certamente mi avrebbe riservato uno sconto.

La mattina seguente mi sveglio con un chiodo fisso: comprare le scarpe. Chiedo a Luca di accompagnarmi, Max viene con noi.
Ci vestiamo, facciamo colazione e usciamo.
L’aria è fredda, ma un sole tiepido tenta di riscaldare l’atmosfera. Presto anch’io avrò un pezzo di Dior, penso tra me, mentre Luca parcheggia la macchina.
Raggiungo il parchimetro e inserisco le monete in cambio di uno scontrino che posiziono sul cruscotto. Lui chiude l’auto, si offre di prendere Max e ci incamminiamo verso la boutique.
Mi sento una principessa, tengo a braccetto il mio principe azzurro e… i miei pensieri si interrompono di colpo.
Come posso pensare alle scarpe?
La mia mente torna indietro: alle nove di ieri sera, quando Luca mi confessa che suo padre è un pezzo grosso di Estée Lauder, che lavora per un tizio che potrebbe salvare una parte del debito mondiale, e che da quando il prode Achille — l’uomo degli snack e delle patatine — lavora per il colosso dei cosmetici ha aumentato il valore di mercato del 247%, diventando l’artefice di una trasformazione aziendale da manuale.
La moda ha preso il sopravvento nella mia vita: come ho potuto permetterlo?
Ma ormai siamo arrivati, non posso farmi venire una crisi di coscienza proprio adesso. Apro la porta del negozio e un delizioso motivo musicale annuncia il nostro ingresso. Venere ci raggiunge un secondo più tardi.
“Ciao Melissa.”
Wow: si ricorda il mio nome, vorrei dire lo stesso, ma il suo, quello vero, proprio non mi viene.
“Salve… c’è Cassandra?”
“No questa mattina non c’è. Ha preso la giornata libera.”
Non lo sapevo, ieri non me lo ha detto. E ora mi trovo di fronte a un bivio: esco e fingo di essere passata solo per un saluto o vado fino in fondo?
Mi volto verso Luca, non sembra annoiato, al contrario, si guarda intorno, Max è seduto e si comporta bene: posso farcela.
“Ieri ero sul sito di Dior e ho perso gli occhi per una borsa…”
Ma prima che possa aggiungere che non è adatta alle mie tasche e che vorrei provare — come palliativo — le décolleté di vernice con il mezzo tacco numero 38, lei mi interrompe.
“Vieni cara, andiamo nel reparto accessori.”
Guardo Luca con aria complice, mi metto in marcia dietro la Venere, lui e Max ci seguono.
“Il tuo cane è bellissimo, come si chiama?” mi chiede.
“Max.”
“E il ragazzo che ti accompagna è il figlio della direttrice di Grazia?” sussurra arrossendo.
Cassandra deve aver sparso la voce.
“Sì esatto.”
Mi volto mentre lo dico, quasi volessi accertarmi della sua presenza: è ancora dietro di me, continua a guardarsi intorno incuriosito.
Attraversiamo un paio di reparti, ci sono due grossi lampadari di cristallo appesi al soffitto, il pavimento è ricoperto da una moquette broccata sui toni dell’azzurro.
È come fare un giro turistico in una grande salotto, dove i vestiti sostituiscono gli arredi, dove gli accessori sostituiscono i pezzi di design: ecco il regno di Cassandra.
Posizionato nella parte centrale, c’è lo stesso divano semicircolare su cui ho adagiato il mio di dietro l’ultima volta che ho provato le scarpe di Dolce & Gabbana.
La Venere mi sta di fronte nel suo tailleur in tweed abbinato a una ballerina di pelle nera, il suo chignon e il suo sorriso mi fanno sentire a mio agio. Luca si siede, mi guarda divertito, incoraggiandomi con gli occhi di fare la mia richiesta: è come se facesse il tifo per me.
“Ho visto un paio di décolleté nere in vernice con il mezzo tacco, hanno un fiocco bianco sul lato esterno.”
“Stai parlando della J’Adior in pelle di vitello verniciata…”
Sui nomi non sono troppo ferrata.
“Credo che siano quelle.” dico indicandole su uno degli scaffali. Avrebbe un 38?”
“Vado a controllare, ma prima non vuoi che ti mostri la borsa che mi dicevi?”
La vedrò dal vivo, potrò toccarla, indossarla. Mi ammirerò allo specchio e mi godrò quei cinque secondi immaginando che sia mia a costo zero. È la mia occasione: come posso dirle di no?
Il mio cenno di approvazione fa muovere la Venere verso l’ala destra del reparto, dove sono esposte le borse. Si volta interrogandomi: “a quale eri interessata?”
Non so come si chiama. L’ho guardata sul sito per un’ora e non ho badato al nome.
Forse dovrei farmi di ricostituenti. Ma non potevo immaginare che un raptus mi colpisse — o adesso non sarei qui.
“Assomiglia a una sella di cavallo.”
È la sola indicazione che riesco a darle.
Ruota con il busto di 180º e la sua mano afferra sicura uno dei quattro esemplari esposti sullo scaffale che sta alle mie spalle, me lo porge con un sorriso e dice: “ti presento la signora Saddle.”
Quasi impallidisco al pensiero di averla paragonata a una sella. Lei è una signora.
E ora è finalmente sulla mia spalla.
“Era l’ottobre del ‘99, quando John Galliano, all’epoca alla guida di Dior, fece sfilare in passerella un accessorio destinato a diventare leggenda.”
La mia ignoranza non smetterà mai di sorprendermi.
“Si era ispirato alla forma di una sella per creare una borsa versatile, giovane e d’effetto, da qui il termine ‘saddle’: sella…”
Se non altro, almeno il nome l’ho azzeccato, anche se da Dior mi sarei aspettata qualcosa di più ricercato.
“La declinò in decine di versioni: logata, in denim, patchwork, colorata. E dopo essere rimasta fuori produzione per parecchio tempo, Maria Grazia Chiuri, l’attuale direttore creativo di Dior, decide di farla sfilare di nuovo e di proporla nella versione mini e regular.” dice impugnando i due modelli per mostrarmi la differenza. “Disponibile in quattro colori: blu, nero, rosso, rosa e nella classica tela monogram.”
È lì, mentre godo della mia immagine riflessa nello specchio, indossando il modello che ho desiderato dal primo istante: una regular in pelle nera, a cui presto dovrò dire addio, Venere conclude la sua presentazione.
“È un oggetto di culto che rispecchia uno stile basico ed essenziale, un pezzo di storia della maison francese.”
Ciò che dovrebbe convincermi a comprarla, riesce solo a farmi sentire peggio: è doloroso abbandonarla sapendo ciò che rappresenta.
“Ti sta benissimo…”
Crede che io non lo veda? Certo che mi sta benissimo, ma costa troppo.
“Ci penserò, grazie.” mormoro sfilandola.
La Venere la ripone sullo stesso scaffale, poi si volta verso di me chiedendomi di ricordarle il numero di scarpe che mi serve.
“Un 38, per favore.”
Lei si allontana un momento, io torno da Luca che mi aspetta sul divano, insieme a Max.
Quindici minuti dopo, usciamo dalla boutique con la mia J’Adior in pelle di vitello verniciata: la stessa che conclude il look di oggi.

Saluto Luca che si offre di tenere Max con sé in fattoria, raggiungo la clinica.
Sto facendo il mio ingresso, quando ricevo una telefonata. La carrozzeria mi comunica che l’auto è pronta e si offrono di consegnarmela al lavoro per scusarsi dell’attesa. Ringrazio, chiedo l’importo per preparare l’assegno e ci accordiamo per le dodici.
Mi precipito nel mio ambulatorio, infilo il camice e vado da Lolita.
Gli animali che hanno subito interventi chirurgici sono al piano inferiore. Scendo le scale e apro la porta.
Lolita è in piedi all’interno della gabbia spaziosa che le è stata assegnata: scodinzola e sembra in gran forma.
La faccio uscire, aggancio il guinzaglio al collare e la conduco da Ilenia per controllarla insieme.
“Possiamo entrare?” chiedo aprendo la porta della sala ecografica.
“Certo… vieni Lolita, vediamo come stai.”
Faccio attenzione alla sutura, la prendo in braccio e lascio che si adagi sul tavolo. Ilenia, nel frattempo, si siede ai comandi, cosparge la sonda di gel e inizia a visitarla.
“Hai fatto un ottimo lavoro ieri.”
“Grazie.” mormoro. “La pressione a volte tira fuori il nostro migliore.”
La modestia si mescola all’ansia: nonostante continui ad accarezzare Lolita, nel tentativo di mantenerla tranquilla, non posso fare a meno di sbirciare il monitor per verificare io stessa che tutto stia andando bene.
“L’utero è in posizione e anche il ritmo fetale si conferma stabile.” conclude lei sorridendo.
Posso tirare un sospiro di sollievo e chiamare il dottore: domani Lolita tornerà a casa. Sto recuperando il telefono che tengo in tasca, quando Britney entra nella sala chiedendomi un parere medico.
Mi domando se non sia la solita scusa per parlarmi della festa, ma ha il viso preoccupato, sembra che abbia davvero bisogno di me.
“Posso riaccompagnare Lolita o è urgente?” le chiedo.
Ma lei non risponde: abbassa lo sguardo quasi volesse nascondere le lacrime che stanno per inondarle gli occhi.
“Puoi pensarci tu Ilenia?”
“Sì, assolutamente, vai con lei.” sussurra.
Britney esce dalla sala, la seguo fino al suo ambulatorio e una volta entrate, vedo la sua gattina all’interno di una gabbia. Guardo Cristina, il suo make-up perfetto è interrotto da due righe più chiare che guastano il colorito uniforme del fondotinta: ha pianto e non so cosa stia succedendo.
“Ha cominciato tre giorni fa.” esordisce.
“È solo l’orecchio destro… sembrava avere una semplice infezione: l’ho disinfettato ripetutamente, ma continua a produrre…”
“Fammi dare un’occhiata.” la interrompo avvicinandomi al tavolo.
Raggiungo la gabbia, estraggo Minou e controllo l’orecchio in questione.
L’aspetto non mi piace.
“E se fosse un adenocarcinoma? Ho visto alcune immagini di tumore epiteliale e non sono molto diverse.” mormora sull’orlo del pianto.
In effetti non potrei darle torto: abbiamo avuto un caso proprio l’anno scorso, ma fu operato e il problema fu risolto.
“Cristina, devi stare calma.” dico con tutta la dolcezza possibile. “Possiamo procedere prelevando un campione e farlo analizzare.”
“Quindi credi anche tu che possa essere un tumore?”
La sua preoccupazione è tangibile. Quasi rimpiango gli spogliarellisti della Limousine-Streaptease che fino a ieri tenevano impegnati i suoi pensieri. E seppure la visione strampalata della vita secondo Britney a volte sia irritante, ammetto di preferirla a quella sofferente: mi dispiace vederla così. Vorrei dirle di tranquillizzarsi, ma non posso mentire.
“Potrebbe essere… abbiamo avuto un caso simile l’anno scorso, proprio su un gatto, che però è stato operato con successo. Minou è in un’ottima clinica, valutiamo per stadi e vediamo come intervenire… sei d’accordo?”
Britney accarezza Minou. Forse dovrei essere io a occuparmi della biopsia, mi offro di sostituirla, ma il suo crollo emotivo improvvisamente scompare.
“No, grazie, voglio pensarci io.” dice con voce ferma e calma.
“Possiamo spedire il campione oggi stesso, i tempi di attesa per i risultati di un esame istologico vanno dai tre ai cinque giorni… non allarmiamoci prima del tempo.”
Il mio tono rassicurante le ruba un sorriso.
“Sicura di non volere una mano?”
“Faccio da sola, grazie.”
Esco, chiudo la porta, ma la preoccupazione di Britney continua a seguirmi lungo il corridoio: non posso fare altro che sperare.

Il campione è stato spedito, ho chiamato il dottore per avvisarlo che Lolita sarà dimessa domani e la mia auto è stata consegnata all’orario stabilito. Sono addirittura riuscita a investire dieci minuti della mia pausa pranzo per togliermi queste dannate scarpe e concedere ai miei poveri piedi un po’ di sollievo. Nel frattempo, ne ho approfittato per leggere la dedica che Enrica mi ha scritto sul libro.

“A Melissa: all’amica che tutte vorremmo avere. Cassandra dice che sei speciale.
Spero che il libro ti piaccia.
Con affetto
Enrica”

Quel ‘triangolo no, non l’avevo considerato’, forse potrei anche consideralo — tra qualche mese magari — dopo aver letto il suo libro. Meglio prendersi un po’ di tempo per metabolizzare certe cose.
E mentre penso alla mia migliore amica che parla di me alla donna di cui sono stata un po’ gelosa, mi viene da ridere.
Cassandra è l’amica che tutte vorremmo avere, e a tal proposito è giunto il momento di ritirare il tavolino per la creatura innocente che tiene in grembo.
Chiudo la porta dell’ambulatorio. I miei piedi sono doloranti, zoppico fino all’uscita e scivolo via, nel buio delle sei.
Raggiungo la mia auto. È pulita e profumata, le mie mani afferrano il volante con desiderio di guidarla. Chiudo la portiera e metto in moto.
“Come mi sei mancata” mormoro.
Ma un dolore lancinante interrompe il mio idillio: dannate J’Adior verniciate!
Mi staccherei i piedi e li spedirei a Dior insieme alle scarpe.
Le tolgo disperata.
Da qui alla Falegnameria ci sono dieci minuti: ce li faremo bastare.
Porto avanti il sedile per avvicinarmi ai pedali e affronto ‘la prima guida scalza’ della mia vita. Vado da Thor.

 

Illustrazione: Valeria Terranova