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18 Set

Il sogno di una vita — e non è il film con Rachel Boston

storie di ordinaria follia

storie di ordinaria follia

 

 

 

N

on voglio girarci intorno: se dovessi definire la mia mobilità con una parola, direi inesistente — e non esagero. L’anno scorso, io e la nonna glitter, che ha compiuto novantuno anni, abbiamo fatto una gara di stretching: ha vinto lei. La nonna è riuscita a toccarsi con le mani la punta dei piedi, io no. Sono intera come un tronco e quando mi piego, mi spezzo.

Anche con il salto ho qualche difficoltà, sembro piantata a terra con un picchetto. Sono sempre stata così. Fatta eccezione per un certo periodo della mia vita — l’adolescenza — in cui capii che era necessario diventare flessibili. All’epoca, Tik Tok non c’era e per essere popolari non bastava ripetere correttamente la coreografia di un balletto. Ai miei tempi, solo se eri in grado di allineare le gambe in direzione opposta, formando un angolo di 180°, potevi sperare di avere un briciolo di popolarità.

Tutte le mie amiche riuscivano a fare la spaccata, ci sarei riuscita anch’io. Mi ero convinta che con la buona volontà, l’elasticità dei miei muscoli sarebbe migliorata. La mia affermazione sociale dipendeva dal mio impegno.

Fu così che tutti i giorni, dopo la scuola, mi conciavo come Alex di Flashdance in Maniac per dedicarmi a un’ora di stretching. Piano piano, passando per gli scalda muscoli di lana, cercavo di raggiungere la pianta dei piedi con i palmi delle mani.

Il momento ‘What a feeling’ giunse due mesi più tardi, quando finalmente mi esibii in una bellissima spaccata frontale — senza rompermi in due.

Non diventai mai popolare, ma avevo realizzato il mio sogno.

Non faccio stretching da allora e sono tornata a essere il tronco di sempre. Ma potrei sempre considerare l’idea di riprendere a praticare yoga. Ora ci penso.

 

Illustrazione: Valeria Terranova