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30 Mag

Il cappotto sbagliato al momento sbagliato

Not For Fashion Victim Enrica Alessi

Not For Fashion Victim Enrica Alessi

C

assandra è di fronte a me. Faccio due passi avanti, per allontanarmi dal capo d’accusa.
La saluto con un sorriso di ghiaccio, mentre immagino dove ho lasciato il cappotto: sul banco, tra le mani di Amelia.
Mi giro di scatto per controllare, e lui è sparito.
Forse, ho ancora una speranza.
Ripristino il sorriso con cui è abituata a vedermi e mi fa una domanda:
“Che ci fai qui?”
È sorpresa, per forza, i miei vestiti non passano mai dalla lavanderia, ma quelli di mia madre sì.
“Ho portato il cappotto di Cervino di mia madre…” — O era Scervino? — “quello che ho sporcato ieri.”
“Quello con cui hai fatto nascere il vitellino!”
È ovvio che se sapesse che si sta parlando del suo cappotto, non lo direbbe con questo entusiasmo, comunque sì, parliamo di lui: ed eviterei volentieri i dettagli, specie la placenta secca che è rimasta sul colletto.
“Già.” dico annuendo.
“Cristina ha detto che era così carino, fammelo vedere…”
Lascia la frase in sospeso e raggiunge il bancone decisa.
“Ciao Amelia!”
“Ciao bellezza!”
Sembrano anche amiche: la mia speranza è andata a nascondersi dalla paura.
Vorrei che un’astronave spuntasse sopra la mia testa, che si aprisse una botola e che un braccio meccanico mi afferrasse per condurmi via: lontano dal pianeta Terra. Ora.
Fisso le spalle di Cassandra e non so cosa fare. La sento chiacchierare, il banco è sgombro, potrei svignarmela. E mentre immagino un posto sicuro, fuori da qui, Cassandra indietreggia e chiede:
“Cos’è questo strano odore?”
Una sola parola, pronunciata in questo momento, potrebbe modificare il corso degli eventi, meglio aspettare e vedere che succede. Ma ripensandoci, visto come sono andate le cose ultimamente, preferisco intervenire con il mio sguardo accecante.
Il mio sguardo accecante è quello che sfodero quando cerco di dire qualcosa a qualcuno, ma non posso parlare. Uno sguardo d’intesa con cui trasmettere frasi del tipo: ‘ti prego, ti supplico, lascia il cappotto dove sta.’
Amelia mi guarda, socchiude gli occhi per aguzzare la vista, ma la sua espressione confusa mi fa capire che ha bisogno degli occhiali: non ci vede.
Provo a scuotere la testa in modo repentino, il messaggio vorrebbe essere: ‘no, no, no, ti prego, inventa qualcosa, non dirle del cappotto’. Ma Cassandra, si volta e mi coglie in fragrante.
“Non sarà il tuo cappotto ad avere questo odore terribile, spero…”
“Be’ vedi…” dico imbarazzata, “in quei momenti non importa dove sei e cosa indossi.”
“Certo, immagino. Ero curiosa di vederlo, ma se dici che è in uno stato pietoso, aspetterò che Amelia faccia il suo miracolo.” dice, voltandosi verso di lei con sguardo complice.
Questo è il momento di filarsela. Ma prima che possa dire addio, Amelia si abbassa, raccoglie il cappotto e lo mette sul banco.
“Hai detto bene mia cara: siamo di fronte a un caso disperato, ci vorrà davvero un miracolo per mettere a nuovo questo cappotto.”
Se la navicella mi avesse rapito, ora non starei tremando.
La nuca di Cassandra è immobile, le ci vorranno dai tre ai quattro secondi per realizzare che quello è il suo cappotto, e quando succederà, sarà la fine.
Decido di tentare una fuga giustificata:
“Tesoro, scusa, sono in ritardo, devo proprio andare al lavoro.”
Ma lei si volta e i suoi occhi sono iniettati di sangue. Tiene le braccia lungo i fianchi, le mani sono chiuse in un pugno e non capisco se sia solo un tentativo di frenare la collera, o se l’intenzione sia invece quella di tirarmene uno.
Cadere al tappeto e perdere i sensi sarebbe preferibile, piuttosto di darle una spiegazione, ma pare non ci sia alternativa.
“Posso spiegarti…” dico dispiaciuta.
“Davvero? Sentiamo… sono curiosa.”
Anche Amelia deve aver sentito puzza di guai: si è appena rifugiata sul retro.
“Vedi: questa cosa dello stile, di migliorarlo, è diventata una cosa seria.
Sto studiando, vorrei davvero che fossi fiera di me… e sì, ho preso in prestito il tuo cappotto per fare bella figura al lavoro, ma non immaginavo il resto.”
“Ti sembra una buona giustificazione? Sapevi che lo stavo cercando, che era nuovo, che lo avevo comprato per un’occasione speciale, e mi hai lasciato credere di non saperne nulla.”
“Ma queste sono informazioni che ho scoperto solo dopo averlo preso, solo dopo essere stata in quella stalla…”
E non è solo questo: vorrei aggiungere che lo spirito di competizione di Britney è stata la vera causa scatenate, ma non vedrebbe di buon occhio un’accusa gratuita alla sua futura cognata.
“Avresti dovuto dirmelo.”
Ha ragione. Non c’è stato un solo momento in cui non mi sia pentita di non averle detto subito come stavano le cose. Si sarebbe arrabbiata, ma avrebbe apprezzato la mia sincerità e ora non saremmo qui a litigare, dentro una lavanderia.
“Non ne ho avuto il coraggio.” dico dimessa mentre lo sguardo si appoggia sul pavimento, incapace di reggere il suo.
“Ti perdono.” dice spiazzandomi.
I miei occhi si illuminano, il sorriso si accende e le braccia si allungano verso di lei per stringerla, ma lei me lo impedisce.
“Ti perdono il cappotto, non potevi sapere quanto tenessi a lui, ma non posso perdonarti la serie di bugie. Mi hai deluso Melissa.” conclude voltandosi verso il banco.
Tutto si è spento.
Resto lì: con il rimorso e la consapevolezza che questo non è né il luogo, né il momento di aggiungere altro, giro i tacchi ed esco senza nemmeno salutare.

Sono una stupida, sono una stupida.
Me lo sono ripetuta per tutto il tragitto in auto, per tutto quello che ho percorso a piedi, lungo il corridoio della clinica per raggiungere il mio ambulatorio, e anche ora che sono seduta alla scrivania.
Britney non si è ancora vista ed è la sola cosa positiva di questa mattinata.
Il senso di colpa mi divora, Cassandra non si fiderà più di me, e forse, valuterà pure l’ipotesi di sollevarmi dal ruolo di testimone. Ma la cosa più atroce è che non ho nessuno con cui parlare.
In effetti, mi basterebbe qualcuno con cui sfogarmi, qualcuno che fosse disposto ad ascoltare la mia versione per intero, senza giudicare, e Jerôme è perfetto.
Prendo il telefono nella borsa e comincio a scrivere.
“Ciao Jerôme, come stai?
Sono riuscita a trovare la lavanderia migliore della città, me l’ha suggerita mia madre, so che sembra incredibile, ma questo è niente. Quando ti dirò che la lavanderia è la stessa in cui si serve Cassandra e che stamattina, mentre consegnavo il cappotto, lei è arrivata e ha scoperto tutto, anche tu avrai la stessa espressione che avevo io.”
Almeno credo, per solidarietà dovrebbe essere così.
“È successo un putiferio, mi ha detto che l’ho delusa, che non si fiderà più di me — questo non l’ha detto, ma ti assicuro che il suo sguardo l’ha lasciato intendere — e che non può perdonarmi la serie di bugie che ho raccontato.
So che ha ragione: il mio comportamento è stato riprovevole, ma le bugie, dette a fin di bene, non dovrebbero essere punite così duramente, non ti pare?
Sì insomma, ero già nell’area di rigore, avevo già calciato la palla, e avrei pure fatto gol, se Cassandra non si fosse trasformata nel palo che ha deviato il mio tiro. Sarebbe bastata una settimana e il cappotto sarebbe tornato a casa: sano, salvo e profumato. Lei avrebbe aperto l’anta di sinistra dell’armadio e lo avrebbe ritrovato: la colpa sarebbe stata dello stress da matrimonio, non mia, e tutto si sarebbe risolto, ma non è andata come speravo.
Volevo davvero sorprenderla, volevo davvero che si complimentasse per i miei progressi in materia di stile, e invece, con questa bravata ho ottenuto l’effetto contrario. Cosa posso fare?
So che non mi risponderai, e nemmeno vorrei, sono già abbastanza mortificata, volevo solo parlare con qualcuno.
Ora devo lavorare.
Un abbraccio
Melissa.”
Lascio scivolare il telefono dentro la borsa e mi rimetto al computer: la mia prima visita è tra pochi minuti.
Vediamo chi è il mio paziente.
Oliver. Dalmata. Dieci anni. Igiene dentale.
Esco dall’ambulatorio e raggiungo la sala d’aspetto. Giulio è alla macchinetta del caffè, mi avvicino e dico:
“Fammelo doppio.”
“Che faccia stamattina, cosa ti è successo?” mi chiede preoccupato.
“È una lunga storia: come il caffè di cui ho bisogno, ma non posso parlarne adesso.”
“Anticipa…” insiste.
Ma prima che possa fare anche solo un breve accenno al mio ultimo disastro, Britney fa il suo ingresso.
“Melissa!”
Cos’è questa euforia? Forse ha saputo del cappotto e sta cercando la piaga in cui girare il suo coltello.
“Avevo giusto bisogno di te.”
“Ho un paziente in arrivo, possiamo parlarne dopo?”
Giulio rimane a guardarci, mescolando il suo caffè, ma so che è solo un diversivo per stare a sentire le novità di Britney.
“Non preoccuparti, ci metto un attimo.”
Perché so già che non sarà rapida e indolore?
“Allora forza, dimmi.” dico risoluta.
“Stamattina Cassandra mi ha chiesto di occuparmi del suo addio al nubilato!” dice saltellando, “Non è fantastico?”
Fantastico?
Fantastico sarebbe stato se lo avesse chiesto a me. Io sono la sua migliore amica, io sono quella che dovrebbe pensare a queste cose, non lei. Ma se crede che me ne stia a guardare, senza fare niente, si sbaglia.
“Hai ragione tesoro, è proprio fantastico.”
dico sorridendo.
La faccia basita di Giulio mi conferma che suona strano sentirmi usare un tono così carino con lei.
“Davvero sei contenta?”
Il suo, invece, stranito e deluso, non fa altro che confermare i miei sospetti: è diabolica.
“Certo che sono contenta.” rispondo sorridendo. “Ora, se vuoi scusarmi, devo uscire.”
“Ma non puoi. Hai detto che hai un paziente in arrivo.” ribatte contrariata.
“Certo che posso, sono uno dei soci qui.”
“E chi ci penserà?”
“Tu. Sei una tirocinante e sei qui per imparare: fai il tuo dovere.” concludo mentre mi libero del bicchierino.
È verde di rabbia. E io sono nera.
Tolgo il camice, infilo il cappotto e prendo la borsa. Devo andare da Cassandra.

UNDICESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova