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17 Set

Cicogne alla riscossa

not for fashion victim enrica alessi

not for fashion victim enrica alessi

 

 

 

 

C

assandra non ci crederà? C’è solo un modo per scoprirlo: telefonarle.
“Ti ricordi quando hai detto che nel 2019, nessuno sarebbe venuto a cercarmi per rimborsarmi un danno?”
“Sì…”
“Be’, si dà il caso che stavolta dovrai ricrederti: sto uscendo ora dalla carrozzeria e il responsabile pagherà la riparazione.”
“Non è vero!”
“È invece è proprio così.” dico fiera.
“È come ti ha trovata?”
“A essere sinceri, sono stata io a trovarlo.
Non interrompermi e fammi raccontare: stamattina vado in carrozzeria, lascio la macchina in cortile, entro e mi trovo di fronte un’auto della stessa tipologia e colore di quella che ha tamponato la mia, e guarda caso, ha proprio il paraurti anteriore ammaccato.”
“Se non sapessi che stai facendo training autogeno per perdere la brutta abitudine di dire bugie, penserei che stai mentendo.”
La sua allusione non mi preoccupa: so bene che crede a ciò che dico.
“Penso agli ottocento euro che dovrò sborsare per riparare un danno di cui non sono responsabile e c’è solo un modo per non spenderli: scoprire chi è il proprietario.”
“E scommetto che ti hanno colta con le mani nel sacco.”
“Peggio: erano dentro al cruscotto.”
“Mi stupisce che non ti abbiano arrestata…” borbotta.
“Ho temuto la stessa cosa. Ecco perché ho detto subito la verità.”
“E come è finita?”
“Ho scampato la galera e ho scoperto che la persona che stavo cercando è uno dei soci dalla carrozzeria. Vedi che avevo ragione? Possiamo ancora avere fiducia nel genere umano…”
“Al diavolo la fiducia nel genere umano Melissa, questa è fortuna, solo un carrozziere si offrirebbe di rimborsare un danno: gioca in casa, non vale.”
“Un carrozziere è pur sempre un essere umano.” preciso per sostenere la mia tesi.
“E poi ha detto che ha provato a raggiungermi, ma andavo come un razzo: è stato impossibile.”
Mi sembra quasi di rivivere la performance adrenalinica della fuga: meriterei un invito a Top Gear.
“Ora devo andare, è entrata una cliente.” bisbiglia. “Ma ricorda che non sarà il senso civico a ripagarti il danno, ma un colpo di c**o. E visti i precedenti: ci sta. Ti richiamo appena mi libero, ciao.”

Seppure l’auto sostitutiva sia la terribile Punto color amaranto che Cassandra schifa, oggi sento che è la mia giornata fortunata. Ho ricevuto un messaggio di Thor e non ho perso il controllo del mezzo. Gli ormoni, invece, hanno deciso di deragliare e di finire giù per una scarpata. Ho sentito le viscere capovolgersi. E si sono riassestate al primo semaforo, quando ho letto il messaggio con calma.

“Melissa ciao. Ho finito di intagliare le cicogne. Se passi da qui, scegliamo i colori per verniciarle.”

Scatta il verde, e come per magia, il rosso che è appena scomparso, lo sento sulle mie guance. Appoggio il telefono sul sedile e riparto.
Tra un paio di vie dovrò scegliere se curvare a destra o a sinistra, se tornare a casa o andare alla Falegnameria. Controllo l’ora sul cruscotto: ho lasciato i cuccioli un’ora fa, forse dovrei tornare da loro, hanno bisogno di me, le cicogne possono aspettare… ma tutto sommato, i cani non hanno il senso del tempo: se mi prendo altri venti minuti, non si accorgeranno di nulla. Giro a sinistra e vado da Thor.
Dopo tre minuti d’auto, gli ormoni sembrano aver trovato la pace interiore, ma francamente non so dire se sia un bene. Ora che sono lucida, realizzo che sto per scoprire se quei tronchi sono diventati cicogne o se sono rimasti cicognosaure, e di fronte alle opzioni che segneranno inevitabilmente il destino dell’allestimento, parcheggio nel cortile della Falegnameria, proprio sotto l’insegna luminosa con gli alberelli sorridenti: sono incoraggianti.
Scendo dall’auto, faccio un bel respiro, il segno della croce ed entro.
L’odore mi è ormai famigliare — quasi quanto quello della carrozzeria, del resto — e Manny Tuttofare sta servendo una ragazza che ha bisogno di un armadio. Lo capisco da come muove le braccia: sembra stia mimando la grandezza delle ante, e dalla ‘apertura alare’ si capisce perfettamente che deve avere parecchi vestiti.
Sto lì, in piedi dietro di lei, aspettando che Manny incroci il mio sguardo e si accorga di me, ma la tizia continua a parlare, non gli dà tregua. Nonostante continui a fissarlo, i miei occhi non lo sfiorano nemmeno: è in balia delle parole dell’altra. Forse dovrei alzare la mano come si fa a scuola, ma opto per l’indice, è più elegante.
“Scusi…” mormoro.
Finalmente mi nota e si precipita verso di me sorridendo: “dottoressa…”
Non sembra seccato dalla mia interruzione, al contrario, la sua espressione è così sollevata e riconoscente da farmi pensare che sia addirittura felice di vedermi. Eppure fatico a spiegarmelo: sa che sono qui per suo figlio.
La mia perplessità scompare un secondo più tardi, quando la tizia si volta e capisco chi è: ora capisco anche lui.
La donna più logorroica del mondo, nonché la moglie incomprensibile del mio ex fidanzato è lì: davanti a me.
“Melissa…” dice spalancando le palpebre.
Cosa ho fatto di male per meritare — anche — questo? Non mi perdo d’animo e cerco di capire a chi dare la precedenza per non essere scortese: rimango pur sempre una signora. Ma lei mi toglie dall’imbarazzo della scelta: “Come stai?”
Guardo Manny, gli chiedo di scusarmi e le rispondo.
“Bene grazie e tu?”
“Non c’è male, stiamo traslocando… ci spostiamo in una casa più grande, molto più grande, e ho bisogno di un’armadio grandissimo…”
Ed ecco che ‘Non mi ricordo come si chiama’ riprende abilmente la parola, costringendo me e Manny ad ascoltarla durante la spiegazione precisa e dettagliata della disposizione di scaffali, cassetti e appendiabiti. Spara anche qualche misura con la virgola per dare il senso delle proporzioni ed è lì che capisco che questo è solo l’inizio.
Mi pento di averle chiesto ‘come stai?’, era una domanda facile, chi poteva immaginare che sarebbe diventata La storia infinita?
La cosa si fa seria: ‘Non mi ricordo come si chiama’ si spinge oltre, ci racconta nel dettaglio dove metterà le mutande di suo marito, i suoi calzini, le sue camicie.
E quando la vedo sfiorarsi la pancia, capisco la ragione dei numerosi preamboli a cui è ricorsa: muore dalla voglia di dirci qualcosa.
“E nei cassetti in basso, metterò la biancheria del piccolo in arrivo.”
Se da una parte mi chiedo come sia stato possibile — immaginando un concepimento veloce, tra una chiacchierata e l’altra — il suo lato materno mi contagia, facendomi pensare ai cuccioli che non vedo da più di un’ora, e seppure non abbiano il senso del tempo, mi sento in colpa: voglio tornare da loro.
Devo cambiare discorso e fermare questa donna, se necessario anche ucciderla.
“Come sta Benji?” le chiedo.
Monica, ecco come si chiama, abbassa lo sguardo, poi lo solleva, mi guarda: piange.
Se oggi indicessero un concorso sulle domande sbagliate, io lo vincerei.
I suoi singhiozzi mi lasciano basita, anche Manny riapre gli occhi che si erano intorpiditi e riprende ad ascoltare con interesse.
“Benji è morto tre giorni fa. È stato investito da un’auto. Siamo distrutti…”
Ora il cucciolo nero non è solo illegittimo, è pure orfano.
“Mi dispiace…”
Vorrei dire qualcosa di più costruttivo per farla sentire meglio, ma è troppo rischioso: potrebbe rimettersi a parlare, descrivere le dinamiche dell’incidente, la sua sofferenza minuto per minuto e non ne ho la forza.
“Se solo sapeste come è andata…” mormora asciugandosi le lacrime.
Lo sapevo: non vedo nessuna via di uscita, sono con le spalle al muro, ma da dietro quel muro, sbuca Thor.
“Melissa! Sei qui?” chiede sorpreso.
“Sì…”
Il pathos che metto nei tre puntini di sospensione dovrebbe fargli intuire la mia richiesta di aiuto, o almeno spero.
Lo guardo sperando che dica la cosa giusta per farmi uscire di scena — e dalla conversazione — ma si sta parlando di me e quando si parla di me, niente va mai come dovrebbe andare.
“Andiamo a vedere le cicogne?”
Sbianco, arrossisco. Sbianco di nuovo.
“Anche tu aspetti un bambino?” mi chiede Monica.
Perché Manny sta ridendo? Non c’è niente da ridere.
“Be’ ecco…”
“Ma è meraviglioso! E sai già se è maschio o femmina? Come lo chiamerai? Il mio è un maschio e avrà il nome del padre.”
Primo: perché crede che sia incinta?
Secondo: come si può essere tanto scemi da chiamare il figlio come il padre?
“Le cicogne di cui parla, ” dico indicando Thor che si è materializzato accanto a me, “sono un regalo per la mia migliore amica: è lei che aspetta un bambino.”
“Hai avuto una bellissima idea!”
“Grazie, ora, se vuoi scusarci, vado a vederle…”
Stento a crederci, sono riuscita a chiudere il discorso. Sono un guerriero che ha vinto la sua battaglia: mi vedo così. Ma la sua voce stridula uccide l’immagine gloriosa che ho in testa.
“Voglio venire anch’io! Potrei metterne una nella sua cameretta…”
Alla parola ‘cameretta’, Manny ha un mancamento. Ora non ride più eh?
“Non sono ancora finite, mi dispiace.” interviene Thor. “Andiamo? Ho i minuti contati: devo fare una consegna.”
E fu così che l’eroe salvò la fanciulla.

Cammino lungo il corridoio, il laboratorio è a pochi passi da me e quando la porta si aprirà, sarà la resa dei conti. Il cuore mi batte fortissimo: sono eccitata, emozionata, preoccupata… molto preoccupata. Thor afferra la maniglia.
“Sei pronta?”
Il mio tiepido sorriso, riscaldato appena dalla debole convinzione che oggi sia la mia giornata fortunata, lo incoraggia a spalancare la porta. Mi fa cenno di entrare.
Le sue opere sono di fronte a me: le guardo e penso a Cassandra, a Jerôme, alla festa… e francamente non so cosa dire, non so nemmeno se ridere o piangere.

 

CINQUATOTTESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova