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29 Nov

Amici miei — e non è il film con Ugo Tognazzi

storie di ordinaria follia
storie di ordinaria follia
I
l problema non è fare la cosa giusta, è sapere quale sia la cosa giusta e, quando andavo a scuola, ero convinta che la cosa giusta fosse difendere i miei compagni dai soprusi dei professori, infischiandomene delle conseguenze.

Se tutti gli studenti del pianeta fanno la gara per accaparrarsi l’ultimo banco in fondo, vicino al termosifone, dietro la colonna o accanto alla finestra, io e la mia migliore amica abbiamo sempre preferito i primi banchi, quelli vicini alla cattedra. Per certi versi era la scelta migliore, per altri meno, ma di fatto, al primo anno di superiori, io e Paola diventiamo le rappresentanti di classe e, quando arriva il primo consiglio con gli insegnanti, chiediamo ai compagni se hanno qualcosa da dichiarare.

Il messaggio è unanime: “la prof di tedesco non sa insegnare.”

E siccome siamo due neo teenagers ingenue che credono ancora alla favola di ‘ambasciator non porta pena’, decidiamo di rimanere fedeli alla versione originale del messaggio riportandolo paro paro. Risultato?

La prof di tedesco si indigna, si vendica e ci rimanda a settembre.

A una persona sana di mente un episodio come questo servirebbe da lezione, peccato che a me sia sempre mancata la condizione necessaria. L’anno successivo il prof di stenografia si arrabbia con un mio compagno che, istigato da un altro, si mette a fare casino. Gli assegna un compito di punizione: scrivere duecento volte le ultime dieci sigle spiegate nella lezione che lui ha disturbato.

Ho assistito alla scena e il mio senso di giustizia mi impone di intervenire. “Poverino!” esclamo.

“Hai ragione Alessi, fagli compagnia, per domani voglio anche le tue.”

Ma il compagno per cui mi sono esposta di più è stato Iccio, il mio migliore amico in quegli anni di smarrimento adolescenziale.

Andamento scolastico pessimo — addirittura peggiore del mio — ma con un cuore buono e gli amici si vedono nel momento del bisogno. Specie quando la prof di storia fissa le interrogazioni programmate, è il suo turno e lui non è pronto.

“Perché non hai studiato?” gli chiedo mentre mi dico: ‘senti da che pulpito’.

“Non sapevo che oggi toccasse a me.”

“In effetti nell’ultimo mese hai fatto più presenze al bar della stazione che in classe…”

“Stai tranquilla, ce la faccio: studio un po’ nell’ora di religione.”

Non credo che si renda conto che cento pagine non si possono studiare in un’ora, ma la provvidenza non conosce limiti.

La prof di religione entra in classe e Iccio le domanda se crede nei miracoli. Io mi faccio il segno della croce tremando: dove vuole arrivare?

“Certo che ci credo”, risponde.

“Mi fa piacere, perché ho bisogno di un miracolo per prendere 6 in storia, ma se lei mi manda fuori a studiare, dove c’è silenzio, forse ce la faccio.”

La prof lo guarda allibita. “Stai scherzando, vero?”

“Ho la faccia di uno che scherza?”

“Tu non prendi sul serio la mia materia?”

“La domanda è tendenziosa, non rispondere”, bisbiglio.

“Non rispondi? E io ti do una nota sul registro.”

Se Tina Cipollari di solito esce, io mi alzo e intervengo.

“No prof, per favore no! Non lo faccia. Lei che è una donna del Signore dovrebbe comprendere il punto di vista di un ragazzo che sta passando un momento difficile e aiutarlo.”

“Alessi! Io non ho preso i voti, faccio l’insegnante e adesso Incerti esce e va dritto dalla preside!”

“Okay!” esclama lui soddisfatto. “Prima, però, posso studiare?”

Mi sembra un buon patteggiamento.

E invece no. La prof gli dà la nota e lo porta pure dalla preside.

Gli rimangono soltanto venti minuti per studiare la Guerra di secessione.

Ho peggiorato le cose, è colpa mia, mi dico mentre faccio velocemente un esame di coscienza per capire quante probabilità ci sono di prendere la sufficienza se mi offro al posto suo. Se dovessi descrivere questa scena con un’immagine, direi che qualcuno sta sparando su un ambulanza, ma altro che provvidenza: è il mio spirito da crocerossina a non conoscere limiti. Propongo lo switch alla prof di storia, ma lei non accetta: ha la stessa espressione determinata dello Zio Sam e vuole Iccio.

Il suo quattro è l’equivalente della sconfitta dei confederati. Eppure, domani è un altro giorno.

Quello in cui il mio amico decide di far sparire il registro di classe per cancellare ogni traccia delle sue assenze e della nota del giorno precedente.

“Dove lo hai nascosto?” gli chiedo terrorizzata.

“Non l’ho nascosto. L’ho preso, sono uscito e l’ho buttato nel cassonetto davanti alla scuola.”

“È il terzo segreto di Fatima e preferivo non saperlo, anzi facciamo finta che non mi hai detto niente, perché adesso succede un casino.”

A denunciare la scomparsa è il prof di matematica e, questa volta, è tutta la classe a finire in presidenza. La preside minaccia di chiamare la polizia, i carabinieri e la CIA pur di scoprire chi sia il colpevole. Non mi resta che fare un nome: quello di Mario, il bidello.

La preside telefona a mia madre, mia madre mi chiude in casa per un mese, ma Iccio si salva.

A pensarci bene, il terzo segreto di Fatima è stato svelato prima del mio, ma ciò che ho fatto, lo rifarei mille volte.

Illustrazione: Valeria Terranova