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3 Ott

Una gita scolastica — e non è il film di Pupi Avati

storie di ordinaria follia

storie di ordinaria follia

 

 

 

S

arà il mio nuovo taglio di capelli a evocare questo ricordo ma, di fatto, io e Luis Miguel siamo legati dalla notte dei tempi. Dal 1985, quando la maestra delle elementari portò la mia classe in gita a Gardaland.

La nostra insegnante, seppure non fosse giovanissima, era una donna di spirito, attenta, impavida, e aveva accettato la grande sfida di prendere un pullman, farsi due ore di viaggio e portare i suoi alunni nel parco divertimenti più grande d’Italia. Sola, senza l’aiuto di nessuno. Era una donna con le palle e non l’avremmo delusa.

Anche mia madre si era data da fare: nella fase ‘gita fuori porta’ ha sempre dato il meglio di sé, e la mattina della partenza, mi presentai sul pullman con un sorriso smagliante e una sacca che pesava più di me. L’aveva riempita con dieci panini imbottiti, sei tranci di pizza, due pezzi di erbazzone e dodici Billy all’arancio in brick: non voleva che patissi né fame, né sete. La bambina stampata sulla sacca, che correva felice sopra la scritta “HAPPY DADA”, stava per esplodere. Cercai di alleggerirla offrendo il mio pranzo al sacco a tutti gli occupanti del pullman, autista compreso. Quando arrivammo a Gardaland, era rimasto solo l’erbazzone che non aveva voluto nessuno. Finalmente mi sentivo leggera come una farfalla.

La maestra fece i biglietti per tutti, entrammo. C’era chi voleva andare su quello, chi su quell’altro e chi, come me, di fronte a una bancarella di braccialetti fluorescenti, aveva già visto tutto ciò che voleva vedere.

Da quando Luis Miguel era stato ospite a Sanremo, io e le mie compagne eravamo pazze di lui. Quella bancarella vendeva la cosa più bella che avessimo mai visto nella vita: i polsini fluo con la sua faccia sorridente. Lo comprammo tutte e ce lo infilammo subito, cantando ‘Noi, ragazzi di oggi noi’. Arrivai trotterellando al castello di Dracula.

Rabbrividivo alla sua vista. Ci ero stata con mio padre una volta ed era bastata a tutti e due: lui aveva perso il portafoglio, io ero morta di paura.

E lì, mentre continuavo a chiedermi come fosse quel castello spaventoso con le luci accese, mi voltai a cercare un parere ma non trovai nessuno. I miei compagni non c’erano più. Erano spariti i braccialetti e pure la maestra: mi prese il panico.

Dovevo calmarmi, lo avevo visto succedere in tanti film e sarebbe successo anche qui, adesso. La maestra mi avrebbe ritrovata. Si sarebbe rivolta all’ufficio Alunni Smarriti per segnalare la mia scomparsa, e una signorina dal tono gentile avrebbe pronunciato il mio nome al megafono. E invece no.

Mi misi a piangere. Se nessuno mi avesse ritrovata, sarei rimasta qui, da sola, con due pezzi di erbazzone. Non potevo permetterlo. Andai all’ufficio oggetti smarriti e dissi che avevo perso la maestra. La signorina dalla voce gentile chiamò il suo nome al megafono — dieci volte — ma lei non si presentò.

Ancora oggi fatico a credere che sia potuto succedere. Eppure, i miei nove anni, abbinati al pensiero di non poter tornare a casa da mamma e papà, ebbero il buon senso di suggerirmi che il braccialetto di Luis Miguel, con cui mi stavo asciugando le lacrime, era un segno di riconoscimento. Con quell’indizio, gli operatori mi accompagnarono in giro per il parco in cerca delle mia classe.

Quando la trovammo, la scena fu memorabile: la maestra era seduta su una panchina a leggere un libro, mentre i miei compagni giocavano a nascondino nel Far West. Nessuno si era accorto che ero sparita. Fu desolante.

Ma forse sapevo che un giorno avrei raccontato la storia del polsino di Luis Miguel, e non volevo che fosse solo la storia della maestra che mi aveva dimenticata a Gardaland, ma anche quella dei due pezzi di erbazzone che nessuno aveva voluto — e che erano tornati a casa con me, sani e salvi.

Illustrazione: Valeria Terranova