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23 Mag

Lavanderia cercasi

I

eri sera prima di andare a dormire — e solo dopo essermi fatta fracassare da Max la quinta vertebra lombare — mi sono buttata sul mio libro.
50% senso del dovere.
50% senso di colpa.
Questa storia del cappotto puzzolente mi porta inevitabilmente al pensiero di profumarlo un po’ e — per osmosi — a volerne sapere di più di Chanel Nº5.
Nel mondo, si vende una bottiglia ogni 30 secondi: è incredibile.
Tra le tante leggende, una delle più affascinanti racconta che, nel 1919, Coco abbia ritrovato la ricetta di un profumo segreto, rimasta nascosta per secoli.
È una storia avvolta dal mistero e, se non fosse per il documento che prova l’esistenza di questa formula, conservato negli archivi di Chanel a Parigi, sarebbe difficile credere a una vicenda così romantica.
Ma la realtà è che Coco, già diversi anni prima, era alla ricerca di un invenzione bizzarra e contraddittoria.
Dopo la morte di Boy, si butta nel mondo del profumo e non è solo un nuovo progetto lavorativo per distrarsi da una grande perdita personale. L’attrattiva che gli aromi esercitano su di lei è qualcosa di più essenziale.
Coco è affascinata dall’arte del profumo e da ciò che una fragranza racconta della donna che lo indossa.
Ha un naso eccellente e sa perfettamente che tipo di profumo le serve, ma non ha la pratica e il mestiere per realizzarlo. Quindi, si mette a cercare una persona che riesca a catturare una sensazione e un concetto ben precisi.
Nel 1920, Coco passa l’estate sulla riviera francese con i suoi amici, gli artisti più influenti del periodo. Tutti sono lì per festeggiare la fine della guerra, e c’è qualcuno che ha più motivo di altri di rallegrarsi: i russi bianchi. Principi e principesse, duchi e duchesse, sfuggiti all’esecuzione nella Russia sovietica, dopo la rivoluzione del 1917. E Coco sceglie uno di questi principi esiliati come amante.
Dimitrij è cresciuto alla corte di San Pietroburgo, negli anni dello splendore imperiale, ma la sua infanzia è stata tutt’altro che semplice.
Boy si era tirato indietro di fronte alla possibilità di sposarsi con la donna di umili origini di cui era innamorato, ma l’aristocratico padre di Dimitri, al contrario, aveva preso una decisione diversa e sposato la sua amante: una scelta che avrebbe pagato a caro prezzo. A causa dell’imperdonabile trasgressione di essersi innamorato di una donna di un ceto sociale più basso, il granduca viene condannato all’esilio forzato e costretto ad abbandonare i suoi figli in Russia.
Li affida allo zio Sergej e a sua moglie, la granduchessa di origine tedesca, sorella della zarina e, per parte di madre, nipote della regina Vittoria d’Inghilterra, che accolgono a braccia aperte Dimitrij e sua sorella, ma neanche questa parte della sua vita ha un lieto fine.
Pochi anni dopo, lo zio viene assassinato per strada sotto gli occhi dei bambini e i due fratelli vengono mandati a vivere presso la corte imperiale, con i loro parenti più prossimi: lo zar e la zarina.
Di quel periodo, sia Dimitrij che sua sorella conservavano il ricordo intenso di un’essenza in particolare: un’acqua di colonia con note di rosa e gelsomino.
Il profumo si chiama Rallet Nº1, ed è una delle fragranze preferite di tutta la famiglia reale, in particolare della zarina.
Dimitrij, che per ragioni politiche, è ormai costretto a vivere in esilio nel sud della Francia, considera quel profumo come quello della sua infanzia, della sua famiglia e di una vita andata in pezzi.
Nonostante l’abissale differenza del loro ambiente di provenienza, Coco e Dimitri hanno un terreno comune che li avvicina. Un senso di mancanza e di nostalgia nella loro vita emotiva. Condividono una sensazione di perdita delle persone amate, di abbandono e di tradimento. Entrambi sanno bene cosa significhi essere soli e non avere radici.
E tra tutte le persone che influenzano la vita di Chanel, Dimitrij condiziona il destino di Chanel Nº5.
Qualcuno dice che si sia limitato a regalare a Coco una boccetta di Rallet Nº1, ma è proprio Dimitri a presentare a Coco il creatore di quel profumo: Ernest Beaux.
L’incontro tra un principe, un profumiere e una stilista cambierà la storia del profumo per sempre.
Tutti avevano un’immagine chiara in mente, le idee di ciascuno erano in perfetta armonia, ed Ernest avrebbe realizzato la fragranza che avevano già creato con l’immaginazione.
Partendo dal cuore di rosa e gelsomino di Rallet Nº1, Coco gli chiede di modificare il profumo della zarina in modo da renderlo più coraggioso, più pulito.
Passano diversi mesi, poi, arriva il grande giorno. Ernest invita Coco a provare le miscele che ha preparato.
Di fronte a lei, ci sono dieci fialette di vetro, numerate da 1 a 5 e da 20 a 24. Ciascuna di esse contiene un’assoluta innovazione nel mondo dei profumi: un cuore che unisce l’essenza della rosa e del gelsomino alle nuove e audaci molecole di aldeidi.
Coco avvicina il suo naso a ciascun campione, il volto non lascia trapelare nulla: è impassibile. Ma in uno di quei flaconi, c’è quello che sta cercando. Sorride e dice: “numero cinque.”
Ernest le domanda come ha intenzione di chiamare questa nuova creazione, Chanel non ha il minimo dubbio.
Il numero cinque è sempre stato il suo talismano, rappresenta la quinta essenza, ed era il numero fortunato di Boy.
Ciò che viene prodotto in quell’estate è un profumo completamente nuovo, che mantiene, però, un fortissimo legame con il passato e con tutte le perdite che ciascuno di loro aveva subito. Una fragranza che cattura gli odori di Mosca, di San Pietroburgo, dell’infanzia dorata di Dimitrij, ma soprattutto, un catalogo completo di sensazioni che Coco ha vissuto.
Ora, non resta che farne un successo.
Coco organizza una cena in un ristorante esclusivo di Cannes e lo sottopone ai suoi amici, che stabiliscono i dettami della moda nell’alta società.
È ansiosa di scoprire se la sua fragranza è davvero favolosa come sospetta e, senza farsi notare, la spruzza nell’aria.
Gli invitati si fermano di colpo, domandandosi cosa sia quel profumo, ma lei fa finta di niente.
La sua creazione è diversa da tutte, è spettacolare, opulenta, sensuale, pura, sembra uscita dal nulla. È rivoluzionaria. Come è rivoluzionaria la sua presentazione.
Fino ad allora, i produttori più famosi usavano flaconi dalla forma particolare, sovraccarichi di ornamenti o incisioni. Gabrielle, invece, innamorata della semplicità e del rigore, preferisce valorizzare il contenuto, più che il contenitore.
Ne sceglie uno semplice, in vetro, a forma di parallelepipedo, che lascia intravedere la soluzione dorata che racchiude.
Il tappo è sfaccettato come uno smeraldo e ha la forma di Place Vendôme, l’etichetta è un rettangolo bianco su cui spicca il cognome Chanel in caratteri neri. Il suo iconico contrasto, che sfrutta così spesso nelle sue creazioni di moda, il nucleo più profondo della sua infanzia, trascorsa nell’orfanotrofio di Aubazine.
Ben presto, grazie al passa parola, nasce una sorta di club segreto di appassionati, e quando i flaconi vengono messi in vendita al 31 di Rue e Cambon, il successo è immediato.
Il suo cuore fiorito unisce alcune tra le essenze più lussuriose e tradizionali: rosa, gelsomino, ylang ylang, sandalo, ma il suo segreto sta nelle aldeidi e nell’uso che ne aveva fatto Ernest. Un ingrediente che avrebbe contaminato gli odori di tutto un secolo, e che avrebbe reso Chanel Nº5 il più grande profumo dell’epoca d’oro.
Un profumo per donne, dall’odore di donna.
‘Di donna’, capito Melissa? Non di stalla.
Sono un disastro. Solo io posso combinare casini come questo, ma prima di andare al lavoro, troverò la lavanderia che mi salverà la vita: è una promessa.
Sul mio letto, ho messo un paio di jeans puliti — solo per questo meriterei un applauso — una camicia nera di chiffon, che non ho idea di come sia finita nel mio armadio, e un cardigan color panna. Sporty-chic: mi piace.
Infilo le mie sneakers di Zara, ed esco con Max per la nostra passeggiata.
Prendo il telefono, che ho infilato nella tasca del cappotto di mia madre e la chiamo.
Il telefono squilla, ma niente.
Dieci squilli e risponde trafelata: “Pronto…”
Guardo l’orologio, sento che ha il fiatone, e ho quasi paura di chiederle il motivo.
Immaginarla sessualmente attiva — specie con mio padre — mi fa venire i brividi.
“Mamma, sono io.”
“Ciao amore, scusa, non ho risposto perché io e tuo padre…”
Non lo voglio sapere. Non lo voglio sapere.
“Stavamo facendo una cosa a tre.”
Perdo i sensi, il mio corpo inerme va giù come un sacco, e Max, che crede stia giocando, prima mi morde la faccia, poi mi trascina a peso morto, con il guinzaglio, per l’intero isolato.
A fine scena sono come Ettore, dopo che Achille lo ha trainato con la sua biga per tutta Troia.
Fortunatamente, questo sta succedendo solo nella mia immaginazione, ma lo scock è forte.
Devo aver capito male.
“Mamma, con calma, puoi ripetere?”
“Io e tuo padre abbiamo deciso che dobbiamo mantenerci giovani…”
Esistono le creme anti-età, dovrei dirglielo.
“… E abbiamo un personal trainer che viene tutte le mattine per spaccarci in quattro.”
Sono quasi sicura che stia dicendo in senso sportivo. La cosa mi solleva.
Mi domando se sia carino, ma non è questo il momento di cercarmi un marito.
“Mamma, devi aiutarmi…”
“Ma stavo facendo i Jumping Jack…”
Non posso neanche contare su mia madre.
“Ti rubo un secondo: mi serve una buona lavanderia, tu dove vai?”
“Non avrai rovinato il mio cappotto bianco di Scervino, vero?”
Magari.
“No mamma, stai serena, il tuo Cervino è sulle mie spalle.”
“Si dice Scervino.”
“Appunto. Il nome della lavanderia?”
“Vai da Amelia, è una mia amica.”
“Non è un po’ vecchio stile?”
“È la sola che è riuscita a smacchiare la tua tunica della comunione.”
Giusto venti anni fa, ma devo fidarmi.
“Okay, grazie, buon allenamento.”
E mentre faccio per riattaccare, immaginando il momento in cui assegnerò il cappotto alla donna che ricordo vagamente, pesto la pupù di Max.
Lui mi guarda, scodinzola, la sua espressione soddisfatta riesce quasi a farmi sorridere, e in fondo, perché raccoglierla? Non si dice che porti fortuna? E io ne ho proprio bisogno.
Cerco di pulire la suola dentro un’aiuola: vista da fuori sembra che stia marcando il territorio come fa Max, dopo aver fatto pipì, ma è mattina presto e non c’è nessuno per strada. Faccio dietro front e torno verso casa.
Libero Max dal guinzaglio, gli do la pappa, e poi via, fuori di nuovo.
Salgo in auto, ignara del fetore che ormai ha impregnato l’intero abitacolo, e in quel momento, realizzo che non può essere solo il cappotto a produrre un tanfo simile.
La mia mente va indietro nel tempo, si ferma a domenica e mi ricorda di aver pulito il frigorifero — era il mio turno —  di aver caricato il pattume in macchina e di non essermene mai liberata.
Scendo velocemente, apro il portellone e capisco subito che la versione suggerita dalla mia memoria è corretta: è il sacco della spazzatura il colpevole.
Mi metto una mano sulla faccia, lo afferro e lo getto nel cassonetto, che sta a due metri da me.
Fuori uno, mi dico mentre risalgo in auto, metto in moto e raggiungo la lavanderia.
Faccio tutto il tragitto con il finestrino aperto, tenendo fuori la testa come Ace Ventura. Mi sarò anche liberata della spazzatura, ma quello che è rimasto sotto la mia suola la sostituisce degnamente: l’aria è di nuovo irrespirabile.
Considero l’ipotesi di farmi un weekend a Lourdes, ma appena i miei occhi scorgono l’insegna della lavanderia, un senso di speranza mi invade.
Recupero il sacco che sta dietro il mio sedile, scendo dall’auto e raggiungo l’ingresso.
Le luci sono ancora spente, provo a spingere la porta, ma anche quella non si apre. Amelia: farai anche rima con camelia — il ché a Coco farebbe piacere — ma qui cominciamo male, devo essere al lavoro tra mezz’ora.
Lo sapevo che non potevo fidarmi di mia madre: sarà chiusa dal 1998, l’anno della mia comunione, e lei ancora non lo sa.
Non mi resta che aspettare, pregando di vederla arrivare da un momento all’altro, e almeno questa volta, le mie preghiere vengono ascoltate.
“Buongiorno.” le dico alzandomi in fretta.
Questo dovrebbe farle capire che dobbiamo accelerare i tempi, ma non funziona. Amelia ci mette tre minuti per cercare le chiavi nella borsa, poi fa un sorriso, apre la porta e mi invita a entrare.
La vedo andare sul retro, le luci si accendono e lei riappare.
Ai miei occhi è come la Madonna, ora devo chiederle una grazia.
“Dimmi tutto…”
“Vede…” dico estraendo il cappotto dal sacco, “sono un veterinario e ieri ho fatto nascere un vitellino…”
“Ma che meraviglia! Racconta..”
Non è proprio il momento.
“Be’, è andato tutto bene, è sano e forte, ma avevo questo cappotto”, dico stendendolo sul banco, “e purtroppo ha assorbito l’odore della stalla.”
Amelia lo prende tra le mani, lo avvicina al suo naso, e anche se vorrei vedere la stessa espressione soddisfatta di Chanel di fronte alla quinta fialetta, so che lo scanserà disgustata. E ho ragione.
“Mi dica che può fare qualcosa, la prego.”
dico in tono supplichevole.
La sua espressione è indecifrabile, come quella di Coco: non lascia trapelare nessuna emozione, io, invece, sono quasi certa di avere un infarto in corso.
Lo appoggia pensierosa, poi mi mostra una macchia sul colletto.
“È questa cos’è?” chiede sospettosa.
Sono quasi certa che si tratti di placenta, ma preferisco tacere. Qualsiasi cosa direi, potrebbe essere usata contro di me in tribunale: meglio lasciarle il dubbio.
“Proprio non saprei.” dico riluttante. “Ma può rimetterlo a nuovo?”
“Certo che posso, io sono Amelia.” risponde soddisfatta.
Avrei voglia di inginocchiarmi ai suoi piedi, ma mi limito a ringraziarla gentilmente.
“Quando sarà pronto?”
“Mi ci vorrà una settimana.”
“Una settimana?” chiedo disperata.
Ma il suo sguardo mi folgora.
“Una settimana andrà benissimo, le lascio anche il mio numero di telefono: se fosse pronto prima, può avvisarmi.”
Tutto sommato, posso ritenermi soddisfatta, l’obiettivo era rimettere a nuovo il cappotto della mia migliore amica, qualche giorno in più non farà nessuna differenza.
Apro la borsa, prendo carta e penna e scrivo il mio numero, ma prima che possa consegnarlo ad Amelia, da dietro le mie spalle, qualcuno pronuncia il mio nome.
Mi volto e Cassandra è di fronte a me.

DECIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova