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5 Ott

L’amore infedele…e non è il film con Richard Gere

  
C
osa si sa dell’amore a diciassette anni?
Quello che ci basta sapere. Niente di più.
E quando quell’amore è frutto di una relazione a distanza, il sentimento si fa ancora più vissuto e sofferto.
Il mio si chiamava Ettore e viveva a Cesenatico. Alto, moro, occhi scuri. I suoi amici lo chiamavano Pippen perché assomigliava al giocatore di NBA.
I genitori e la sorella si erano trasferiti a Bruxelles per seguire gli impegni di lavoro del padre, lui aveva deciso di rimanere in Italia con i nonni.
Ci vedevamo a weekend alterni, spostandoci con il treno, ma tra lui e me, non c’erano solo 160 chilometri di distanza, c’erano pure 40 centimetri di differenza di altezza: era un distacco notevole e non passava inosservato.
Mia madre ci chiamava ‘l’articolo il’, mio padre ‘il gigante e la bambina’, sua nonna — che mi aveva vista una volta soltanto — se ne era uscita con un: ‘Ettore: quella ragazza è troppo bassa. Devi pensare alla tua progenie, santo cielo.’
Ma noi quel cielo continuavamo a toccarlo con un dito, insieme eravamo perfetti e nessuno sarebbe riuscito a dividerci.
Lo pensai anche quella volta, quando mi telefonò nel cuore della notte, piangendo, per confessarmi che aveva tentato di tradirmi.
Tra un singhiozzo e l’altro, ero riuscita a capire che seppure fosse stato lui a provarci, lei gli aveva detto di no.
Dovevo apprezzare la sua sincerità, e considerare che il tradimento non si era effettivamente consumato, ma sapere che a impedirlo era stata la stessa ragazza che aveva mosso i suoi ormoni, mi infastidiva. Ero sì arrabbiata, ma ero forse più curiosa di conoscere le dinamiche —che mi feci raccontare nei dettagli, senza non poco imbarazzo. Lui aveva tentato di baciarla, lei lo aveva scansato: tutto qui.
La sua necessità di confessare mostrava chiaramente che non si sentiva attratto dall’altra, voleva solo farmela pagare.
C’era stata una lite nei giorni precedenti, avevo detto qualcosa che lo aveva infastidito, e dopo aver discusso al telefono per ore, avevamo deciso — dopo la minaccia di mio padre di tagliare i fili — che ne avremmo parlato di persona alla prima occasione. La lite era stata lasciata in sospeso, gli animi si erano placati, ma il suo risentimento desiderava vendetta.
Come comportarsi? Perdonare? Probabilmente sì, ma in quel preciso momento della mia adolescenza, non mi importava di salvare un rapporto, ma di sapere se l’altra era meglio di me.
“Dimmi com’è.”
“Perché?”
“È una domanda lecita: voglio sapere che aspetto ha. Se ci hai provato, avrà avuto qualcosa di speciale.”
“Ma ti ho già spiegato che…”
“Dimmelo!”
“Okay: è alta, bionda, gioca a biliardo.”
Il tipico esemplare di femmina sexy.
Pregai che almeno fosse grassa e chiesi:
“Costituzione?”
“Robusta.”
“Meno male. Come si chiama?”
“Samanta.”
Mi era bastata quella rapida descrizione a farmi pensare che il nome le cascasse a pennello. Ma che importanza aveva il nome? Nessuna.
Tra le mille domande che quei diciassette anni si stavano ponendo, rimbalzandomi in testa come biglie, la più sensata che mi venne in quel momento fu: “perché ti ha detto no?”
“È gay.”
Quel dettaglio aveva semplificato le cose: smisi di vederla come una potenziale rivale e facemmo pace in fretta.
Ma una relazione a distanza ha pur sempre i suoi limiti, a quell’età è facile che il bisogno di affetto si mescoli al caos ormonale e spesso, accade di cadere in tentazione.
Non lo chiamai nel cuore della notte.
Perché svegliarlo e confessare di averlo tradito con un mio compagno di classe? Aspettai la mattina seguente — dopo aver fatto colazione.
Era stato solo un bacio, non significava niente, ma desideravo essere sincera.
Visti i precedenti, decise di perdonarmi.
I mesi passarono e presto arrivarono le vacanze estive a Cesenatico. Il periodo più bello dell’anno, quando i miei prenotavano nell’albergo di sempre e la nostra relazione a distanza si trasformava in un incontro ravvicinato del terzo tipo.
Era una calda sera di agosto, Ettore mi aveva proposto un ‘pizza e luna park’, ed era venuto a prendermi con la sua bicicletta.
Indossavo un abitino nero con le spalline, una collana colorata, e un paio di sandali — perché altro non poteva essere — che proprio non mi ricordo. Ero carina.
Salii sul suo bolide a due a ruote, che mi portò in pizzeria.
Dannati moscerini, da dove arrivavano?
La storia della generazione spontanea non mi aveva mai convinto, ma di fatto, per proteggere la Coca dai loro attacchi, misi il tovagliolo sul bicchiere per poi tirarmelo dietro facendolo rovesciare sulla tovaglia e sul quel vestito nero che amavo mettere al contrario. Avevo inzuppato persino i bottoni che originariamente erano stati pensati per la scollatura sul retro. Mi misi a ridere. Lui pure.
Arrivammo al Luna Park poco più tardi, dopo la cena conclusa in modo piacevole, e dopo quattro lunghissimi chilometri su quel tubo di metallo scomodissimo.
Ettore aveva parcheggiato la bicicletta vicino a un albero, aveva chiuso il lucchetto e mi aveva abbracciato conducendomi dai suoi amici, che ci stavano aspettando in sala giochi.
Era alta, bionda, ed era l’unica ragazza al tavolo da biliardo che teneva in mano una stecca: ero di fronte alla famosa Samanta.
La stessa che, a fine serata, mi avrebbe riaccompagnata in albergo con la sua bicicletta, dopo che Ettore se ne era andato senza dirmelo.
Non era riuscito a perdonarmi quel bacio
dato per gioco e non aveva trovato il coraggio di dirmi che non era più innamorato. Fu quella la spiegazione che mi diedi, ripercorrendo i fatti e i quattro chilometri verso casa. Ma se la conclusione sembrava abbastanza ovvia, discuterne con lei, con la ragazza che aveva segnato l’inizio di una crisi, era la cosa più pittoresca che mi fosse mai successa.
Ci salutammo davanti al cancello del mio hotel, la ringraziai.
“Non prendertela, è stato uno stupido…” disse prima di andarsene.
“Ecco brava, se lo vedi diglielo.”
Sono passati tanti anni da allora, ma io e Pippen siamo rimasti amici. È addirittura venuto al mio matrimonio. Anche lui si è sposato, ma è un po’ che non ci sentiamo.
Di Samanta, invece, nessuno sa più nulla.
Illustrazione: Valeria Terranova