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8 Feb

Café Society — e non è il film con Woody Allen

enrica alessi storie di ordinaria follia
enrica alessi storie di ordinaria follia
 
H
o sempre adorato la famiglia Addams e per deformazione professionale, c’è una puntata in particolare che non ho mai dimenticato: quella in cui Morticia, già sposata con figli, decide all’improvviso di diventare una scrittrice.
Presa dall’impeto narrativo, chiede a Lurch di portare in cantina la mitica poltrona di vimini e decide di rimanere lì a tempo indeterminato, fino a che non avrà terminato il suo romanzo.
Gomez, che al solo sentirla pronunciare  parole in francese va in estasi, soffre moltissimo di quella lontananza provocata dal suo isolamento creativo. E se nella puntata, Morticia si rivela una pessima scrittrice e tutto torna come prima, io, invece, continuo a vivere nel desidero di appartarmi. Mi prendo spesso lunghi momenti di reclusione dal mondo — che non mi fanno proprio benissimo — però, nella mia clausura, confesso che a tenermi compagnia sono i commenti dei lettori che, sempre più spesso, mi scrivono: “Sei molto carina: rispondi a tutti, sembri una di noi, mi piaci perché non te la tiri.”
Per fare un esempio: io sono sempre stata quella che, quando si facevano le squadre di pallavolo nelle ore di educazione fisica, entrava per obbligo nella squadra con meno giocatori. Quella che non sceglieva nessuno. Ora invece, anche se non so come sia potuto succedere — e chi mi conosce sa che sono sincera quando lo dico — ho un pubblico di persone attente che leggono ciò che ho da dire, che si fermano, smettono di fare qualsiasi cosa per trovare un momento da dedicarsi — e da dedicarmi. E mi ritengo molto fortunata, specie se considero il momento sociale e politico in cui viviamo. È bello sapere di avere il potere di fare leggere le persone, di tenerle agganciate a una storia a puntate che va avanti da quasi due anni. Sono un antidepressivo culturale e sono orgogliosa e onorata di rispondere a ogni singolo commento che qualcuno ha avuto la gentilezza di scrivere. Di scrivere perché potessi leggerlo: un grazie è il minimo. Ringraziare è una forma di rispetto.
Non sono Sophie Kinsella, ma ho il mio da fare: un marito, due bimbe, un cane, una gatta, un lavoro, però ci mancherebbe che non rispondessi. Mi porta via un po’ di tempo, ma è un momento che amo concedermi: raccolgo i frutti delle mie fatiche, leggo i pareri, le supposizioni sull’evolversi delle storie, e anche io, che come ho detto sono una di voi, ho il desiderio di interagire con i miei personaggi famosi. Di solito scrivo agli attori, ai registi, agli sceneggiatori, ai conduttori televisivi, ma non mi sognerei mai di scrivere a Woody Allen, a Brad Pitt o a Jimmy Fallon. A Paolo Sorrentino, ad Alessandro Borghi e ad Alessandro Catellan invece sì.
E infatti ho scritto. Il primo non ha mai visualizzato il messaggio, il secondo lo ha visualizzato senza rispondermi — e mi ero solo complimentata con lui per la splendida interpretazione in un film, mica gli ho scritto “a bel faccino, te piaccio?” — Comunque, l’unico che si è degnato di rispondere è stato l’ultimo. Anche più di una volta, entrando a far parte — insieme a pochissimi altri — della mia piccola cerchia di ‘famosi gentili’ che non se la tirano.
Che io dico: la celebrità è un dono del pubblico, la celebrità è l’espressione di una vasta allucinazione collettiva, ed è il pubblico a decidere a chi assegnarla. Eppure quando i ‘famosi’ vengono incoronati, a volte succede che se ne freghino di chi ha messo loro la corona in testa.
Mi piacciono le persone ambiziose, mi piace quando si sentono realizzate in ciò che fanno, ma smettono di piacermi se perdono l’umiltà. Ricambiare l’affetto di un fan è parte del gioco.
A ogni modo, vorrei concludere con una bella notizia e far sapere ai miei lettori che la scorsa settimana, qualcuno di davvero famoso a livello mondiale, ha ripostato le mie stories di Instagram: grazie Iris Apfel.
Illustrazione: Valeria Terranova