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28 Gen

“Come vi siete conosciuti?”

l'amore ai tempi supplementari romanzo enrica alessi

 

l'amore ai tempi supplementari romanzo enrica alessi

 

 

 

 

 

S

to lì, seduta vicino all’albero di Natale, con il telefono tra le mani, cercando le parole giuste con cui iniziare, ma è più difficile del previsto. Di cosa ho bisogno? Ispirazione? Suggerimenti divini? O di un copione già scritto a cui attenermi?
Spirito di improvvisazione? Già, in amore è meglio improvvisare.
L’indice preme il suo nome tra i contatti, il telefono squilla e lui non risponde: questo non lo avevo previsto.
Potrei sprecare altro tempo torturandomi di domande: sarà arrabbiato? Deluso? Triste? E se la bionda fosse tornata a casa sua a bere quel caffè? Ma non saprei rispondere — specie all’ultima — e forse, l’idea del copione non era così sbagliata: gli scrivo un messaggio.
Chiudo gli occhi, mi concentro.
In effetti, mi sembra quasi di vederlo il mio cervello: aperto in due come un arancio mentre gira vorticosamente nello spremiagrumi, ma il succo del discorso ancora non è uscito.
Un bel respiro, dunque, vediamo:
“Ho provato a chiamare, tu non rispondi, ma devo dirti cosa provo, prima che le questioni che ci circondano si portino via più di quanto non abbiano già fatto.
So di avere una situazione incasinata, so di non aver gestito la cosa nel modo migliore, ma ti amo, ti amo come non ho mai amato nessun altro e vorrei farti capire che sto facendo tutto questo solo per Sofia…”
E sulla parte che mi sta più a cuore, il testo del messaggio scompare e appare il nome di Paolo sul display.
“Ciao, mi hai cercato?”
“Sì, sono arrivata.”
“Grazie per avermi avvisato.”
“Non ti ho chiamato solo per questo.” mi affretto ad aggiungere. “Ti ho chiamato per dirti che mi dispiace di essere inciampata in quella foto, di avertelo fatto pesare, di averti dato l’impressione che non mi fido di te. Ma più di tutto, mi dispiace di non aver gestito le cose come avrei voluto…”
Sto andando bene, lo sento.
“Ti amo e spero di non averti deluso.” concludo.
Dall’altra parte, il silenzio.
Forse, ho parlato troppo presto.
“Paolo, ci sei?”
“Sì, sono qui.” mormora. “Eva anche io ti amo, ma…”
Quel ‘ma’, lasciato in sospeso, mi ghiaccia il sangue. Vorrei intervenire, dirgli che se è vero che mi ama, non esiste nessun ‘ma’, troveremo una soluzione, e invece rimango ad aspettare una sentenza che non immagino. Lo sento sospirare, sembra che anche lui fatichi a trovare le parole, ma per dirmi cosa?
“Mi hai tagliato fuori, mi hai letteralmente tagliato fuori.”
“Non ti ho tagliato fuori, sono stata costretta ad accettare per il bene di mia figlia.” ribatto.
“Aspetta: il tuo ex marito, con cui dici che è finita, ti trascina in una situazione che può creare confusione, e tu vieni a dirmi che non puoi tirarti indietro per il bene di Sofia? Scusa, ma fatico a capire…”
“Sofia sa bene che io e suo padre non stiamo più insieme.”
“E una vacanza di famiglia sicuramente ribadirà il concetto, non è così?”
“Stai esagerando.”
“Io? Io starei esagerando? Davide continua a pilotare la tua vita e nemmeno te ne accorgi. Quando riterrai opportuno farmi uscire dal cilindro? Sono curioso.”
Sembra più arrabbiato che curioso.
“Non mi sembrava questo il momento più adatto per presentarti Sofia.”
“La verità è che mi hai messo in panchina ad aspettare.”
Non avrebbe potuto esprimere il suo stato d’animo in maniera migliore. Ora so come si sente e ho l’impressione che la situazione stia precipitando.
“E Andrea? Sembra scomparsa nel nulla, giusto prima di questa vacanza, strano eh?”
È sicuramente arrabbiato. Aggiungerei pure deluso e frustrato, e non ho niente a cui aggrapparmi per ribattere. Posso solo aprire il cuore e lasciarlo parlare:
“Ti amo, ti amo come non ho mai amato nessun altro, non volevo ferirti.”
“Credo che tu debba capire ciò che vuoi.”
“So già cosa voglio, speravo lo avessi capito.” mormoro.
“I fatti non sono limpidi quanto le parole.”
Cosa dovrei fare adesso? Scusarmi?
Giustificarmi ancora? Fornire spiegazioni che mi sembrano ovvie, in cambio di un giudizio che non merito?
“Anche le tue non sono cristalline. Dici che ti fidi di me, ma non lo dimostri.”
“Se non mi fidassi, non saremmo nemmeno qui a parlare.”
Il suo tono è duro, ma per lo meno, questo è un punto a mio favore.
Avrei voglia di sbirciare il messaggio che stavo scrivendogli per prendere spunto e dire qualcosa che possa concludere questa telefonata in modo sereno: ho sempre saputo che l’improvvisazione non è il mio forte. Ma è lui che mi precede.
“Tu sei la mia chance e non voglio dividerti con nessuno. Sbrigati a tornare.”
Se avesse detto questa frase tre ore fa, prima che me ne andassi da casa sua, sarei rimasta tra le sue braccia per sempre.

È una tregua, mi ritengo soddisfatta, ma sono io quella che insiste a non darsi pace. La faccenda dei ruoli continua a influenzare le decisioni che condizionano la mia vita. Quello di mamma e quello di donna viaggiano su due binari paralleli e non sembra previsto un punto di incontro.
Ma se questa volta è stato il ruolo di mamma a primeggiare, non posso fare a meno di chiedermi: cosa sarebbe successo se avessi agito esclusivamente per me stessa?
Avrei mandato al diavolo mio marito, ecco cosa sarebbe successo. Vedrò di rifarmi nel prossimo futuro.

Il prossimo futuro arriva il giorno dopo: siamo pronti a partire.
Davide ha cambiato la destinazione da Sankt Moritz a Madonna di Campiglio e i bagagli sono pronti. Due valigie per Sofia, una sola per me.
Vorrei poter dire di essermi sacrificata portando con me solo l’indispensabile, ma è una tattica studiata a tavolino per valorizzare al minimo il mio aspetto, giusto per non creare equivoci.
È stata una violenza, lo ammetto: un solo abito elegante da indossare per tutte le serate — capodanno compreso — tre paia di scarpe e tre cambi per il giorno. Il quarto è quello che ho addosso, una tuta in cashmere color panna di Fendi, abbinato a un paio di Moonboot di Chanel: la sola gioia di questa partenza.
Davide passa a prenderci, non posso sapere cosa abbia messo nella sua valigia, ma da come si è presentato stamattina, non pare essersi risparmiato. Indossa un paio di jeans sbiaditi, una t-shirt bianca che lascia intravedere i pettorali poderosi, un cardigan nero in felpa, un piumino color ghiaccio e un occhiale specchiato che sembra studiato appositamente per fare colpo sulle piste da sci. E nonostante il suo potenziale sia espresso solamente a metà, odio ammetterlo, ma gli dona parecchio.
Carica i bagagli e ci mettiamo in viaggio.
Sofia ha occupato i sedili posteriori insieme a Olivia, io sono seduta davanti e incrocio le dita, sperando che la vescica del cane risenta delle curve e si liberi sugli inserti in pelle — lontano da mia figlia.
“Mettiamo il cd della Disney, papà? Voglio la canzone di Mary Poppins…”
Davide obbedisce, la musica si accende e sulle note di ‘Basta un poco di zucchero’ capisco che la traccia riassume perfettamente ciò che mi attende, ma la mia pillola di andare giù non vuole saperne.
Siamo appena partiti e non vedo l’ora di scendere dall’auto, stare chiusa in questo abitacolo, vicino a lui, è una tortura, specie quando il ruolo di donna mi ricorda l’alternativa a cui ho rinunciato. Sono carica di rabbia, il mio sguardo truce si nasconde dietro un bellissimo paio di occhiali di Prada, mi basterebbe toglierlo per incenerirlo, ma questo gli darebbe la soddisfazione di vedermi in défaillance emotiva e non mi va. E quando arriva il momento di Hakuna Matata, in cui mi chiedo quando la mia vita sarà senza pensieri, Sofia smette di cantare e ci fa una domanda.
“Come vi siete conosciuti voi due?”
D’istinto mi levo gli occhiali da sole, mi volto verso di lei e mi sfugge un sorriso.
“Come hai conosciuto papà?” chiede di nuovo.
Mi giro velocemente, un po’ perché fatico a reggere il suo sguardo curioso e insaziabile, un po’ perché soffro il mal di macchina e tenere gli occhi sulla strada mi fa stare meglio.
Mi rifiuto di pensare che suo padre l’abbia indottrinata, preferisco pensare che sia una semplice curiosità che, prima o poi, almeno una volta nella vita, tutti i bambini desiderano togliersi.
Ma mentre la mia mente va indietro nel tempo, per ripercorrere i momenti salienti del nostro incontro, inciampo inevitabilmente negli orsetti di Missoni ricoperti di succhi gastrici e lì, mi viene da chiedermi come riuscirò a omettere la storia del Vodka Tonic.
Okay, lo so: basta saltare la parte di Milano, quella della sala calcio, quella della discoteca in cui Michele mi ha abbandonato e tutto andrà bene.
“Io e papà vivevamo nello stesso palazzo, sullo stesso piano per essere esatti…”
“Non ci siamo conosciuti in un ristorante?” mi interrompe.
Dannazione.
“Già, dimenticavo…”
Sono con le spalle al muro, non mi resta che attenermi alla cronologia dei fatti e saltare quel fiume di alcol su cui ho navigato quella sera. E mentre mi fingo la Fiona May della situazione, accingendomi a prendere la rincorsa, Davide mi anticipa e va avanti al posto mio.
“Avevo visto la mamma fare trasloco nel palazzo che ti ha detto, ma non avevo avuto l’occasione di presentarmi. Mi era piaciuta da subito e volevo sapere il suo nome.”
Sto arrossendo, sto arrossendo come una quindicenne. La strada è tutta curva, se ora mi voltassi verso Sofia, per capire come sta reagendo al racconto romantico di una storia d’amore che lo stesso narratore ha distrutto, potrei dare di stomaco. Non mi resta che abbassare l’aletta parasole che ho di fronte e posizionare lo specchietto di cortesia verso i sedili posteriori per sbirciare da lì.
“E come hai fatto?” chiede curiosa.
“L’ho letto sul campanello. E quando ho rivisto la mamma in un ristorante di Milano, sono andato da lei chiamandola per nome.”
Sofia rimane a bocca aperta.
“E lei cosa ha fatto? Cosa ha detto?”
L’entusiasmo di Sofia è talmente contagioso, che quasi mi sembra di rivivere quella parentesi felice.
Il ragazzo che sta seduto con sua la squadra, al tavolo che sta dietro il mio, mi ha colpito. Mi volto a cercarlo, ho paura che possa accorgersene, ma non posso farne a meno: è un colpo di fulmine a tutti gli effetti. Anche Michele si è accorto che c’è qualcosa in quella sala che mi turba.
Ci metto un po’ a confessare che stiamo parlando di un calciatore, è quasi uno smacco per me, considerando il quoziente intellettivo che ritengo di possedere.
Lo descrivo prendendo spunto da ciò che indossa: una felpa rossa che risalta l’incarnato del suo viso e il colore intenso dei suoi occhi.
Michi lo vede, apprezza, si diverte, ma quando lo vede alzarsi dal suo tavolo per raggiungere il nostro, rimane a bocca aperta, proprio come Sofia.
“Mi sono presentato, le ho detto che abitavamo sullo stesso piano e che mi sarebbe piaciuto rivederla…”
“E poi?” chiede.
Ora tocca a me, è il momento di saltare.
“E poi, quando siamo tornati a casa, anche io volevo rivederlo e sono andata a cercarlo.”
“Davvero? Quindi anche papà ti piaceva?”
“Sì…” mormoro. “Ma ho sbagliato appartamento: ho suonato il campanello di Dolores, una buffa signora che lo conosceva, che mi ha indicato la porta giusta.”
“E poi?”
Freme dalla voglia di sapere e io ricordo solo il bacio che è venuto dopo.
“Le ho dato un bacio.” conclude Davide.
Sofia si mette le mani sulla bocca, le sfugge una risatina d’imbarazzo: la sua curiosità è stata soddisfatta.
Si addormenta qualche minuto più tardi,
lasciando lo stupore e la meraviglia che aleggiavano nell’aria poco fa.
“Mi dispiace.” mormora. “E non lo dico per circostanza, sono sincero.”
Io resto in silenzio.
“Sono consapevole di averti perso e so anche di averti perso per sempre. Ma mi pento ogni giorno per ciò che ti ho fatto, eri la donna dei miei sogni e ti ho lasciato andare via.”
Aggiungere qualcosa è difficile, specie quando non si ha nulla da obbiettare.
Dovrei rallegrarmi per la mia rivincita personale e invece sono arrabbiata.
Sento la sofferenza nella sua voce, il desiderio, la volontà di chi sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa pur di rimediare. Ma più di tutto, sento il delizioso piacere della vendetta.
“Mi hai lasciato andare via: decisioni sofferte come questa necessitano di una buona ragione e tu dovevi averne sicuramente una.” mormoro.
“E invece ho sbagliato, non avrei dovuto.”
Mi prende la mano, la stringe, io rimango impassibile.
Vittima e carnefice sembra che abbiano invertito i loro ruoli, e forse era questo che stavo aspettando. Voglio ingannarlo, come lui mi ha ingannato. Voglio ferirlo come lui mi ha ferito.
“Sarebbe bello cancellare il passato…”
Il mio tono pacato deve averlo destabilizzato: sembra essere in difficoltà.
Controlla Sofia dal retrovisore, deglutisce, toglie lo sguardo dalla strada per una frazione di secondo e mi guarda.
“Dipende solo da te, dammi una seconda occasione, ti prego amore mio.”
Amore mio: un sostantivo e un aggettivo possessivo che si uniscono per creare un espressione di grande intensità, ma io ci vedo soltanto la cupa disperazione di un uomo che sta per mettersi in ginocchio chiedendo pietà.
Dov’era l’amore suo, quando portava addosso l’odore del sesso consumato con lei? Dov’era quando ha deciso di lasciarmi per andarsene di casa? E dov’era prima che Andrea sparisse?
“Torniamo insieme, ti prego, torniamo a essere la famiglia che eravamo.”
C’è ancora la sua mano sulla mia, la scosto un momento, la sposto sopra la sua e la accarezzo. Lui sorride.
“Lascio Andrea, io voglio te.”
Do un’occhiata al mio specchietto: Sofia dorme. Sono nella posizione di dire tutto, di dire niente, di decidere della sorte della famiglia di cui parla.
“Potremmo riprovarci…” dico togliendomi gli occhiali da sole.
Si volta verso di me: ha la faccia di chi ha appena vinto alla lotteria. Pende dalle mie labbra, in attesa che le stesse pronuncino la frase che lo renderà felice.
“Ma sono innamorata di un altro, anzi, sono pazzamente innamorata di un altro e sai meglio di me che al cuore non si comanda. Quindi, ahimè, temo di non poterti accontentare.”
Ora anche lui conosce quella sensazione di impotenza causata dall’incapacità di non poter fare leva su alcun tipo di strategia per cambiare la realtà delle cose, e non nego di provarne piacere.
Il suo sguardo resta fisso sulla carreggiata. Non solo è deluso, credo sia il suo orgoglio ferito a fornirgli quell’espressione accigliata che mi fa gongolare.
“Mi stai rendendo il favore, non sono uno stupido. Ma so che mi ami ancora e so che tra noi non è finita.”
Vorrei contraddirlo, ribadire il concetto e suggerirgli di lasciare perdere, ma Sofia si è svegliata e ci sta chiedendo quanto manca per arrivare.
“Tra poco, tesoro.” risponde Davide. “Tra una mezz’ora al massimo.”

Davide mantiene la promessa, arriviamo davanti all’hotel una mezz’ora più tardi.
Il facchino ci raggiunge per aiutarci con i bagagli, mentre noi ci incamminiamo verso la reception.
Entriamo, c’è un bancone semicircolare rivestito in marmo, una ragazza sorridente che ci attende e davanti a me, una figura di spalle che riconosco immediatamente.
Sta rimproverando i suoi marmocchi: nonostante siano cresciuti, continuano a metterla a dura prova, e a pensarci bene, è nella situazione in cui l’avrei immaginata, se avessi saputo di trovarla qui. Credo di non essere mai stata così felice di vedere il mio capo.

TRENTANOVESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova