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27 Lug

Diario di una scrittrice pronta a tutto – TERZO CAPITOLO

enrica alessi scrittrice
enrica alessi scrittrice
 
S
ono arrivata a Positano venerdì, Carola è riuscita a rimanere per il weekend e Giaco è risultato indispensabile per renderlo possibile. Ma stasera è ripartito, non poteva fermarsi. Ho chiesto a Carola di restare, ma ha preferito tornare a casa dai nonni. Le scalinate sono troppe impegnative per salirle e scenderle con un paio di stampelle. Come darle torto?
L’ho lasciata andare, ma mi mancherà moltissimo. Mi farò consolare da Emma che rimane qui con me — e da una dose extra di spaghetti alle zucchine della Cambusa. Ci sta.
Un piatto di spaghetti alle zucchine sta a me, come un piatto di spaghetti alle arselle sta a Claudia: è matematica, è chimica, è fisica, è spaghetto. E lo spaghetto non guarda in faccia nessuno: nemmeno chi, come me, ha i capelli corti e non può raccoglierli in uno chignon perfetto per gustarselo. Seppure non sia indispensabile: io ci riesco lo stesso.
E ora che metà della mia famiglia mi ha salutato, Emma è già sotto le coperte ad aspettarmi, sono sul balcone della mia stanza d’albergo, seduta su una delle sedie che fanno pendant con il tavolino circolare. Di fronte a me, c’è Positano: è la classica cartolina ‘by night’.
L’illuminazione delle case in lontananza è così calda da ricordarmi l’atmosfera natalizia, anche i fari delle auto sembrano intermittenti, ma la totale assenza di vento, il mare calmo che culla le onde — e il pigiamino corto e glitterato che ho addosso  — mi fanno sentire il profumo d’estate. Rimango immobile, stendo le gambe sull’altra sedia per mettermi comoda, aspettando che questo magnifico scenario mi dia l’ispirazione per scrivere, eppure, resto lì a fissarlo.
Ora capisco perché chiamano questa parte di Positano L’Incanto: è bellissima, toglie il fiato.
Mi domando cosa prova chi vive qui, chi si sveglia la mattina e apre la finestra trovandosi di fronte il mare e le file ordinate di barchette. Come può essere?
Non che rinneghi le mie origini, ma se mi si chiedesse cosa preferisco, se le paludi reggiane o questo panorama, nessun conterraneo me ne vorrebbe, se scegliessi la seconda opzione. E poi non voglio pensarci ora, ora mi aspetta una presentazione: è per questo che sono qui.
La mia faccia sorridente è su tutte le locandine dell’evento sparse per la città, sono orgogliosa. A mostrarmela per prima è stata una mia follower australiana, un paio di settimane fa. Lei non mi legge, ma ama il mio modo di vestire e un giorno, mentre aspetta l’autobus insieme alla sua famiglia con cui è in vacanza, mi riconosce e mi manda una foto su Instagram.
La manco per un soffio, il mio inglese tira un sospiro di sollievo, la mia ansia fa un apnea prolungata… su quella locandina, è scritto chiaramente che domani ci sarà l’ultimo appuntamento della ventisettesima edizione di Mare, Sole e cultura e io parteciperò con Prêt-à-bébé. Chiuderò la stessa rassegna che è stata aperta da Siani e da De Crescenzo ed è una grande responsabilità: che Dio me la mandi buona.
Ma siccome ancora non so che tra ventiquattro ore esatte, pioverà a dirotto, decido di distrarmi concentrandomi sul look. Uno scacciapensieri.
Ho deciso di dire basta alla shopping: ciò che mi serve è già nel mio armadio e non l’ho mai indossato. E seppure un pezzo vergine in guardaroba possa far pensare a un acquisto compulsivo, in realtà è stato decisamente ragionato.
L’ho scelto quattro mesi fa, dilapidando l’intero budget mensile destinato allo shopping, in una volta soltanto.
A pensarci bene, mi ricorda la ceretta: un colpo secco e per un mese stai senza pensieri.
È stato un buon affare a prescindere, ma tenuto conto del fatto che è un abito in seta stampata multicolore, dove il fucsia è predominante, e che l’ho comprato senza sapere come sarebbe stata la copertina, non lo definirei soltanto un buon affare: è stato un dono del cielo.
Me lo sono regalata dopo essermi promessa che lo avrei inaugurato la sera della prima presentazione. Ma quel sabato c’erano quarantaquattro gradi — in fila per sei col resto di due — e l’abito è accollato, accollato con le maniche lunghe.
Solo un pazzo presenterebbe il suo libro con gli aloni sotto le ascelle: dovrebbe essere proibito dalla legge. Ma ora, pare che sia giunto il suo momento. Domani sarò sulla terrazza del Marincanto che si affaccia sul mare, ci sarà una leggera brezza e un vestito accollato è perfetto. Deciso: vado con lui. E con Emma che la sera seguente mi accompagna.
Lo sanno tutti che i tacchi a Positano non si mettono, ma il mio abito è lungo: mi servono. Farò attenzione a scendere le scale, anche se sono sempre più convinta che William Friedkin abbia preso ispirazione da quelle di questo paese per girare la scena finale dell’Esorcista.
Ci sono quattro rampe da fare per raggiungere la terrazza: posso farcela.
Ogni gradino diventa un pretesto per riassumere le regole che mi sono data per salvare la mia reputazione di scrittrice e mentalmente, le ripeto.
1. Prendi informazioni su chi dovrai affrontare.
Ho fatto ricerche su Gianluca Mech: sarà lui l’ospite d’eccezione.
2. Preparati uno straccio di discorso.
Questa volta non serve, mi faranno della domande a sorpresa.
3. Rilassa le spalle, tieni dritto il busto, e lo sguardo fisso sul tuo interlocutore. — E vai ‘a braccio’.
4. Non dire troppi ‘ehm, forse, cioè, quindi, praticamente’.
  5. Non gesticolare.
Porto a termine l’elenco e le prime due rampe con successo: l’osso del collo è ancora integro. Io ed Emma arriviamo in prossimità di un piccolo salotto all’aperto che dà sul mare, Emma riconosce il dottor D’Elia e timidamente lo indica. Anche lui pare ricordarsi di lei, la saluta sorridendo e ci invita a raggiungerlo.
Si alza dal divano su cui stava seduto insieme a un altro signore che non conosco, e dopo averci chiesto come stiamo, ce lo presenta:
“Enrica…”
Sto per commuovermi: così? Al primo colpo?
“Le presento il professore D’Episcopo.”
Avrei voglia di presentarmi come D’Alessi,
ma poi mi confonderebbero con il cantante e saremmo punto e a capo.
“Enrica Alessi, piacere.” dico stringendogli la mano.
“Il professore è un importante critico letterario, insegna lettere all’università Federico II di Napoli.” continua il dottor D’Elia. “E sarà lui a farle qualche domanda.”
Se ora lo sapesse Fantini, il mio insegnante di italiano delle superiori, credo che avrebbe un ictus. — E io lo capirei: per lui sono sempre stata Wanda Osiris.
Il professore ha letto il libro, si complimenta e inizia la recensione citando alcune parti che lo hanno divertito.
Sono fiera della mia storia: amo mio figlio.
Ho sempre voluto chiarire che non è un manuale: detesto le regole e non mi piace imporre le mie agli altri, ma ammetto che se volessero trarne qualche spunto per una vita più felice, sarei felice anch’io.
E mentre rifletto sul fatto che è ancora un uomo a esprimere un buon giudizio sul mio libro, mi dico che questa è una delle cose che non mi sarei mai aspettata da PRÊT-À-BÉBÉ, in senso positivo ovviamente.
Ho sempre sottolineato che non mi rivolgo solo alle mamme, ma a tutte le donne — in particolare a quelle che hanno qualche difficoltà a gestire l’autostima —  ma gli uomini non li avevo proprio calcolati: per la virilità maschile, una copertina fucsia è come la criptonite per Superman.
E invece, pare che il mio libro non li spaventi, al contrario, lo affrontano con onore per dimostrare a loro stessi di non avere pregiudizi, ed è bello ricevere il loro favore.
Mi siedo accanto al professore, Emma, dall’altra parte, discute con il dottore del suo futuro: le chiede cosa farà da grande, lei risponde che vorrebbe diventare una psicologa e lui, sorpreso e divertito, si offre di mandarle qualche libro scritto da alcuni dei suoi autori.
Emma è timida, ma non sembra intimorita dalla situazione, anzi, direi che ci ha preso gusto. Mi sorprendo di quella constatazione, quando i passi di alcune persone che scendono le scale catturano la mia attenzione. Hanno in mano il mio libro: sono qui per me.
Il dottore suggerisce di trasferirci in terrazza dove potrò firmare le copie.
È stato allestito un salottino azzurro Tiffany: ci sono un paio di poltrone, un divano, una telecamera fissata a un cavalletto, proprio di fronte a me: mi prende il panico.
Mi faranno un video, riprenderanno i miei errori in diretta e li butteranno sul web per sempre… Okay, voglio buttarmi di sotto.
Mi volto per controllare l’altezza e valutare le ferite — anche letali — che potrei riportare, ma c’è un tetto. Mike direbbe: niente di fatto.
Sarà meglio salvare parte della reputazione con uno scatto: alle mie spalle c’è Positano, il mio vestito merita, è facile fare una bella foto.
Ne trovo una sola che sia pubblicabile: una in cui ho la testa indietro. Forse stavo cercando quel tetto che ancora mi tenta.
In tutte le altre, ho il sorriso tipico di chi finge che tutto stia andando alla grande, anche se non è vero. Mi siedo e aspetto il mio destino.
Il professore si accomoda sulla poltrona alla mia sinistra, Anna Laura, la collega di Carmen, prenderà posto nell’altra e anche lei mi farà qualche domanda.
Perché sono così agitata? In fondo, ho scritto io il libro, so tutto, devo solo mantenere la calma.
È il calore delle persone a mettermi subito a mio agio. Si avvicinano timidamente, si siedono vicino a me e si presentano.
Chiacchiero un po’ con loro, chiedo se hanno già letto il libro, se gli è piaciuto, a chi vorrebbero che lo dedicassi.
Una signora mi detta: A Jessica — con l’acca — la guardo divertita pensando alla solita battuta, invece è seria.
Non credo che apprezzerà il capitolo che riguarda i nomi. Deglutisco.
Un’altra signora, invece, è mamma di Elena che ha tre bambini. Un’eroina: definisco così le mamme che hanno più di due figli. Scrivo la mia dedica, saluto e mi concentro sui prossimi signori che stanno arrivando: una coppia di bell’aspetto che domani partirà per Londra. Sono i genitori di una ragazza che vive lì e che presto avrà un bambino, vogliono regalarle il mio libro. Ma i momenti piacevoli trascorsi con i lettori si esauriscono, Gianluca Mech arriva su siede accanto a me e la serata inizia.
Lui presenta un libro di marketing, io sono tutta cuore: cosa succederà?
Gianluca mi piace, racconta di sé, delle sue esperienze, è spigliato e disinvolto. Spiega ciò che ha scritto nel suo ‘La pubblicità è un gioco’ e dice una cosa interessante: se non sei una multinazionale che ha tanto denaro da investire in pubblicità, usa il cuore: mostrati per come sei. — Forse posso ancora vincere.
Poi tocca a me, Anna Laura mi chiede quanto c’è di me nel libro. Vorrei rispondere tutto e pure di più, ma mi limito a sorridere e a sottolineare che tante dinamiche sono state costruite tenendo conto del fine narrativo, aggiungo la mia dose di ‘ehm, forse, cioè, quindi, praticamente’, il pubblico applaude e la parola passa al professore.
“Non sempre le donne raccontano le proprie emozioni più intime, e invece questo libro scopre delle verità che noi uomini non sospettiamo.”
Sono quasi certa che si stia riferendo alla proposta di matrimonio vicino al cassonetto.
“Non c’è nessuna voglia di fare letteratura, tra virgolette, la vita di per sé è già letteratura… non so se riesco a rendere l’idea di ciò che dico.” continua il professore. “È la vita di tutti i giorni che viene raccontata in questo libro… e vi farete anche tante risate, perché Enrica è molto ironica, molto divertente, molto vera, molto viva, più che viva… vivace — mi permetto di dire — si vede che è una donna elettrica.”
Alla parola ‘elettrica’, i miei capelli svolazzano. Non capisco se sia il vento o quel lato di Billy Elliot che ho sempre creduto di possedere.
“Chi la conosce vede già dai suoi movimenti che partecipa attivamente a se stessa, perché per comunicare agli altri, bisogna prima appartenersi.”
È ufficiale: sono commossa.
“Io vedo la voglia di continuare, lei non può fare a meno, oltre che di vivere, di scrivere, perché ho notato che c’è proprio questa voglia di scrittura, ed una cosa che mi ha molto colpito, e insisto sul cinema: i suoi personaggi, le sue scene si vedono.”
Questa cosa me la dicono tutti e io impazzisco letteralmente di gioia quando succede, e mentre cerco di gestire il rossore che si manifesta con evidenza sul mio volto, il professore continua la sua analisi.
“La cosa più difficile dei libri sono i dialoghi e questo libro è uno dei pochi a essere pieno di dialoghi: non c’è pagina in cui due persone non parlano tra di loro, che sia il marito, le figlie, gli amici… è un libro fortemente dialogico e questo nasce dalla natura…” dice indicandomi. “È evidente che Enrica viene da una patria in cui si parla molto, si comunica, si discute.”
Questo lo devo alle paludi reggiane, che siano loro a stimolare il mio intelletto e a tirar fuori il meglio di me? E seppure sia consapevole che dovrei godermi il momento e quelle parole che mi stupiscono e mi lusingano, l’immagine di Fantini che viene colto da un malore, mentre preme con insistenza il pulsante del suo Salva Vita Beghelli, non mi abbandona.
Sento una goccia scivolarmi sulla fronte, ci metto un po’ a capire che non è sudore.
Non può piovere proprio adesso che il professore sta osannando la mia creatura.
E invece piove, piove a dirotto. Ma lui insiste non si lascia intimidire, conclude e mi pone una domanda:
“A questo proposito, vorrei chiederle se la mia impressione è esatta, e che cosa pensa di questo primo risultato, di questo primo ‘parto letterario’?”
Mi concentro, elaboro mentalmente la risposta, ma sono distratta da un mano che sbuca da dietro le mie spalle. È quella di una ragazzina che sta lì, dietro il divano, a coprirmi con un ombrello. Se non mi sbrigo, le verrà una paresi al braccio. Mi volto, prima a destra, poi a sinistra: Gianluca e il professore stanno facendo la doccia: a loro non è stato offerto alcun riparo. Forse la forma di riguardo è più per il mio abito che per la sottoscritta. E mentre mi affretto a spiegare il perché di quei dialoghi, affermando che mi diverte tantissimo scriverli e che in famiglia siamo tutti dei chiacchieroni, cane compreso, il professore getta la spugna: “È la presentazione più bagnata della mia vita.”
Standing ovation: tutti si alzano e scappano via.
E dopo una bellissima cena piena di brindisi, in cui Emma è stata la mascotte, ci salutiamo e ci accingiamo ad uscire dal ristorante: piove ancora.
Carmen, Anna Laura ed Emanuela sono le prime a precipitarsi verso il parcheggio del Marincanto, seguite da me, da Emma, dal professore e dal dottore, che dice ridendo:
“Però è piacevole…”
A quel punto vorrei ribattere dicendo che il mio abito di Valentino la pensa diversamente: la pioggia lo sta sciogliendo, ma mi metto a ridere anch’io, pensando: presentazione bagnata, presentazione fortunata.
 TERZO CAPITOLO
Illustrazione di Valeria Terranova