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9 Mar

Tobia

enrica alessi scrittrice

enrica alessi scrittrice

È

una calda domenica di primavera, me ne sto sdraiata in giardino, guardando il prato che ho di fronte e quella piccola aiuola sulla destra. Sospiro e la mia mente va indietro nel tempo. Giaco e io siamo sposati da due anni e nessuno dei due ha ancora parlato di bambini, l’argomento è taboo. Sembra una scena di vita già vissuta: assomiglia a quella della proposta di matrimonio. Prima che succedesse, nessuno dei due aveva mai pronunciato quella parola. Ma nonostante questa volta sia disposta a scommettere che a Giaco basterebbe un cassonetto per convincersi a diventare padre, sono io a non essere pronta per una cosa così grande. Perché un cucciolo al guinzaglio riesce a sciogliermi, e di fronte a un bambino sul passeggino resto di ghiaccio? Anche i cuccioli sono bambini, ma non urlano, non fanno i capricci e non ti tirano la pappa in faccia, non mi sembrano dettagli trascurabili. O forse, semplicemente, nel mio pacchetto basic non è stato predisposto l’istinto materno, e poi, chi voglio prendere in giro? A mala pena so badare a me stessa, dove lo trovo il tempo per occuparmi di un bambino? Ora c’è Tobia e lui è perfetto. Tobia è il collie che ci hanno regalato quando Giaco e io siamo andati a vivere insieme. È stato Giaco a sceglierlo tra i suoi fratelli, lo ha preso in braccio, lo ha guardato e ha detto: “Enri, prendiamo lui.” È un bellissimo cucciolo che mi fa sentire una mamma anche senza esserlo, perché con lui faccio tutto ciò che una mamma farebbe, tranne cambiargli il pannolino. Tobia ha un occhio azzurro e uno marrone, sembra una peculiarità di cui andare fieri, se non fosse che quando andiamo a spasso, le persone si fermano per chiedere se il cane è cieco. No, il cane non è cieco, e non è neanche un ‘Lassie’, è un collie: Lassie poteva essere sua zia. Tobia ha tre caratteristiche distintive: la passione per la palla, l’abbaio ossessivo compulsivo – che in pratica consiste nell’abbaiare quindici minuti ininterrotti per farmi capire che è felice che sia rientrata a casa, che manco mio marito dopo due giorni che non mi vede – e l’accanimento morboso per aspirapolvere e tagliaerba che lo induce ad azzannarli indistintamente senza curarsi delle conseguenze. Lui c’è sempre. Quando mi vede triste, pensierosa o preoccupata, si avvicina, mi scruta, si siede e allunga la zampa, quasi a voler dire: “ehi, dimmi cosa c’è che non va.” Anche oggi, che siamo in giardino a giocare a palla, mi guarda in modo strano. Possibile che abbia capito cosa mi passa per la testa? Forse l’istinto materno che credevo di non possedere, si sviluppa con il tempo, in modo naturale, e i due anni passati con Tobia devono averlo decisamente stimolato. Anche io lo guardo, mi perdo nei suoi occhi bicolore e quasi senza accorgermene, le parole escono da sole:
“Ciccio, non sarà facile come è stato con te, ma tu sei il fratello maggiore, so che mi aiuterai.”
È ufficiale: sono pronta a diventare mamma. E se adesso fosse Giaco a non essere pronto, come reagirei? Mi arrabbierei? A conti fatti, lui dovrebbe solo mettere un seme nel terreno, ad annaffiarlo per far crescere il fiore ci penserei io. Anche la capienza del vaso sarebbe solo un mio problema. Gli uomini che paura hanno? Non ingrassano e non si gonfiano, la loro vita non cambia di una virgola – almeno per i primi nove mesi – e nella fase iniziale, si tratta solamente di concimare un campo fertile. E se invece ci volessero anni prima di avere un bambino? Forse diventerò una di quelle donne assatanate che controllano morbosamente lo stato di fertilità, che aspettano a casa il marito con gli occhi iniettati di sangue, pronte a tendergli un agguato e a spolparselo vivo per farsi ingravidare. Lui, una domenica mattina, dopo aver fatto colazione, mi darà un bacio sulla fronte, e con un zaino da montagna sulle spalle – di cui io non mi accorgerò – mi dirà che esce un attimo per comprare le sigarette e non lo vedrò tornare mai più. Scuoto la testa. No, a me non succederà, il nostro bambino arriverà in modo spontaneo, non abbiamo bisogno di sforzarci per fare una delle cose più belle del mondo. Guardo l’orologio: sono quasi le sette, Giaco sarà qui a minuti, sarà meglio creare un po’ di atmosfera. Una cenetta a lume di candela, una bottiglia di vino rosso… solo uno stupido non capirebbe le mie intenzioni. Okay, aggiungerò anche la lingerie, non si sa mai.

Continua…

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Ancora mi domando se sia stato merito della lingerie, ma ce l’ho fatta: sono diventata mamma, per due volte. Ho scritto tutti i dettagli riguardanti la dolce attesa in un romanzo, chissà, un giorno potrei anche pensare di pubblicarlo. E ho scoperto di possedere un discreto senso materno — seppure atipico — e il merito è solo di Tobia. Credo che non sarei mai diventata mamma se non si fosse prestato come ‘cavia’ per farmi capire che potevo farcela, anche con i bimbi veri. Lo guardo, mi guarda. Gli chiedo di mettersi seduto e anch’io mi siedo di fronte a lui. La sua espressione è traducibile in: ‘sì lo so: queste urlano, fanno i capricci e ti tirano pure la pappa in faccia, ma io sono qui, posso aiutarti — se mi dai una fetta di mortadella.’ Ha ragione: insieme possiamo farcela.
Discretamente aggiungerei. Corre l’anno 2014, Emma ha nove anni, Carola ne ha sei e Tobia dodici: è il fratello maggiore perfetto. Mio padre continua a chiedermi un nipotino maschio, e io continuo a rispondergli che lo ha già: ha quattro zampe. Oggi ho organizzato la festa di compleanno alle bimbe, una cosa in piccolo: Gardaland mi fa un baffo. I gonfiabili sono sparsi ovunque, c’è il carretto dei pop-corn, quello dello zucchero filato e gli animatori che intrattengono i bambini con una caccia al tesoro. È un soleggiato pomeriggio di fine maggio, Tobia potrebbe farsi venire una sincope anche solo a vederli tutti quei palloncini e poi c’è troppo caldo, troppa gente: lui abbaia a chiunque per salutare. Preferisco lasciarlo in casa con Disney Channel e l’aria condizionata. Gli do un bacio sulla fronte: al centro di quella macchia bianca che riesco sempre a macchiare di rossetto, e chiudo la porta per raggiungere i miei aiutanti: i nonni. Loro non mancano mai. I nonni si occupano di rifornire le bevande, le nonne i dolci e le patatine. A me e a Giaco è toccato il lavoro sporco: credo che questa cosa dei rifiuti sia diventata una costante della nostra vita. Guardo il giardino da lontano. Visto da qui sembra un vero parco giochi: i grandi si divertono come i bambini e io sono felice. Carola è salita sul palco che è stato allestito per il Karaoke, governandolo come una star internazionale. Sfodera tutto il repertorio di Violetta, senza sbagliare una virgola. Emma invece è laggiù con le sue amiche. Stanno preparando una coreografia da sballo con cui esibirsi dopo il taglio della torta: sembrano le Pink Ladies di Grease. Anche Matte è passato a salutare.
“Meno male che avevi detto: ‘farò qualcosa di piccolo’. Enri, qui mancano solo Moira e gli elefanti.”
“Ah! Come sei esagerato! Vuoi fare un giro sul toro meccanico?”
“Non è vero. Stai dicendo che hai noleggiato un toro meccanico?”
“Esatto. E togliti quell’espressione sconvolta dalla faccia: non stiamo parlando di un sexy toy gigante, è solo un toro che fa le piroette.”
Riesco pure a fargli fare un giro, ma prima che possa aumentare la velocità e scaraventarlo fuori dal ring, mi richiamano all’ordine per il taglio della torta. Salvato da uno strato di pasta di zucchero, due di pan di Spagna e tre di crema chantilly. Peccato. Candeline, ‘happy birthday to you’, e spartizione della torta. Apertura dei regali, torneo di bigliardino, e grigliata finale. Sono quasi le otto, gli invitati ringraziano e ci salutano: piano piano il giardino si svuota. Ciò che resta è un prato colorato ricoperto di palloncini, bicchieri vuoti e sacchetti di pop corn. L’ultimo ad andare via è Morra, che, nel frattempo si è sposato con Anna e hanno due gemelle: Marta e Vittoria. Non avrei mai detto che una donna sarebbe riuscita a prenderlo al lazzo, e invece ha trovato la sua: la sola che abbia saputo domarlo. Ora che abbiamo esaurito gli ospiti, possiamo pensare a ciò che resta della festa e fare uscire Tobia. Salgo le scale, apro la porta, e come da copione, comincia ad abbaiare.
“Amore, ti ho visto, sono qui.” dico abbassandomi su di lui per coccolarlo. “Andiamo giù?”
Mi guarda, scodinzola, sembra che aspetti qualcosa, e di solito, è un’altra carezza. Scendiamo in giardino e lui recupera la sua palla per giocare. Nel frattempo, aiuto gli altri a salvare il pianeta dividendo carta e plastica, raccogliamo i palloncini svolazzanti e smontiamo i festoni. La mamma mi aiuta a radunare i regali, a sparecchiare i tavoli, poi, mi saluta per raggiungere mio fratello che le ha chiesto una mano con i bambini. Io le do un bacio e prendo fiato per assaggiare una fetta di torta, ma Emma e Carola interrompono il mio spuntino: “mamma siamo stanche…” dicono all’unisono. Hanno ragione è stata una giornata pesante. Hanno i vestitini sporchi, il trucco sulla faccia, i capelli arruffati: dovrei metterle in lavatrice.
“Dove sono papà e il nonno?”
“Sul toro meccanico.” risponde Carola ridendo.
“Prima. Adesso sono là dietro con la macchina.”
“Ah. Okay.”
Tocca a me: Giaco non può aiutarmi. Ancora non capisco perché quando arriva il momento del ‘bagnetto’, lui stia sempre facendo altro. Devo ricordarmi di chiederglielo. Nella lavanderia al piano di sotto c’è una doccia attrezzata con accappatoi colorati e kit — rigorosamente rosa — di shampoo e bagnoschiuma. Suggerisco di sfruttare una novità e lasciare intonso il bagno di sopra. Emma e Carola sono entusiaste, le prendo per mano e scendiamo le scale. Raggiungiamo il bagno e chiedo loro di svestirsi. Sento una macchina spostarsi in giardino e Tobia che abbaia.
“Chi è arrivato?” chiedo alle bimbe.
Ma loro non rispondono. Tobia continua, ma c’è qualcosa di strano nel suo modo di abbaiare, non sembra che stia salutando, sta guaendo. Guardo le bimbe terrorizzata, anche loro hanno avuto la mia stessa impressione.
“Amori, vado a vedere cosa c’è.”
Le lascio abbracciate in preda a un pianto isterico. Due, tre gradini alla volta, cercando di salire le scale più in fretta. Esco dalla porta, vedo la macchina di mio papà ferma sulla destra e Giaco inginocchiato su Tobia, che è sdraiato a terra. Non riesco a rendermi conto di cosa stia succedendo. Sento le bimbe agitarsi, vedo mio papà in disparte che piange, il musino di Tobia che sbuca dalle braccia di Giaco, e i suoi occhi che mi chiamano. Mi precipito su di lui. Prendo il suo viso tra le mani, lo chiamo:
“Tobia. Tobia, amore guardami.”
Cerco di riprendere lucidità, lo osservo con attenzione per capire dove sia ferito. Vedo la sua zampa destra sporca di sangue, ma solo in superficie, e allora, perché chiude gli occhi?
“Giaco, devi portarlo dal veterinario. Io chiamo Franco sul cellulare per dirgli che stai arrivando. Corri.”
Mio padre si avvicina per mettersi alla guida, piange, e anche se i singhiozzi gli impediscono di parlare, sento nel mio cuore le parole che non riesce a dire. ‘Non so come sia successo, andavo piano, non l’ho visto.’ E io non posso far altro che stringerlo forte.
“Papi, adesso riprenditi, dovete salvarlo.”
Gli accarezzo la nuca, chiudo gli occhi, cercando la forza di voltarmi, di riaprirli e di guardare mio marito e Tobia, senza piangere. Giaco lo stringe tra le braccia e lui mi guarda. Dunque è così? Ci stiamo separando? Uno dei momenti che ho temuto di più nella vita, sta succedendo adesso? Devo accettarlo: potrebbe essere l’ultima volta che ci guardiamo negli occhi.
“Ehi, amore mio.” dico avvicinandomi a lui. “Lo sai vero? Io ho bisogno di te. Io non posso vivere senza di te.”
“Enri non piangere, a Tobia ci penso io. Ti amo.” E lo stringe a sé, come quel giorno, in cui aveva scelto il suo cucciolo.
La macchina parte, la seguo con lo sguardo, finché riesco a scorgere la luce dei fanali. Abbasso la testa e cerco di togliermi le lacrime dal viso: le bimbe mi stanno aspettando, e io non so cosa inventarmi per tranquillizzarle. Uno alla volta, lentamente, percorro i gradini in discesa, tenendomi al corrimano e al briciolo di speranza che decido di non abbandonare per fare uscire il meglio che ho da offrire in una situazione come questa. Non serve che dica loro cosa è successo: hanno sentito la mia telefonata, la mia voce tremante, il mio pianto. Sono ancora vestite per fortuna, Emma sta cercando di consolare Carola, che ha il viso bagnato dalle lacrime.
“Tate, sono qui.” dico mentre corro da loro. “Ascoltate: Tobia si è fatto male, ma papà e il nonno lo stanno portando dal veterinario.”
Le vedo annuire, trattengono il pianto, ma hanno capito che è una cosa grave.
“Facciamo così: rimandiamo la doccia nel sotterraneo, meglio tornare in casa, okay?”
Mi seguono, le sento singhiozzare, dire le preghierine, il mio cuore è a pezzi. Cerco un diversivo suggerendo una vasca piena di schiuma, ma loro hanno deciso per una doccia veloce: si stanno lavando da sole.
“Vogliamo essere già in pigiama quando torna Tobia.” dice Emma sforzandosi di sorridere. Ricambio anch’io con fatica e la aiuto a uscire dalla vasca.
“Amore asciugati e mettiti il pigiamino.” dico a Emma passandole l’accappatoio. “Carola, dai, ora tocca a te.”
In dieci minuti, siamo lavate e stirate, in attesa del suo ritorno.
“Mamma posso farti una domanda?”
“Dimmi, Emma.”
“Ma chi è stato?”
“Tesoro, non lo so.”
“Mamma, c’è la macchina del nonno.” dice Carola entusiasta puntando il suo piccolo indice sulla vetrata che dà sul vialetto. E io non saprei dire se è un buon segno. Perché Giaco non mi ha chiamato?
“Mamma possiamo andare giù?” chiede Carola impaziente, mentre Emma la prende per mano. Le guardo e mi sento impotente.
“Aspettate, torno subito.”
Devo aprire la porta e capire cosa è successo. Esco di casa, vedo la palla immobile sul cortile di ghiaia, e Tobia: ai piedi di due alberi che stanno sull’argine che dà sul canale. Mio padre sta seduto vicino a lui, Giaco si avvicina a testa bassa. Mi guarda, ha gli occhi lucidi e mi accarezza il viso.
“Hanno provato con il massaggio cardiaco. Con un’iniezione di adrenalina…” E il resto della frase si perde in un lungo pianto liberatorio. Mi abbraccia, mi stringe, cerco di consolarlo per quanto mi è possibile, ma capisco dal suo sguardo che vorrebbe essere lui a fare qualcosa per me. Lo bacio e le mie gambe, in modo quasi autonomo, si spostano di qualche passo per raggiungere il mio papà.
Piange, continua a dire che gli dispiace, che si sente colpevole. Lo stringo, lo stringo forte e farei qualunque cosa per sollevarlo da questo peso, ma non riesco a dire niente. Le bimbe sono rimaste di sopra, devo tornare da loro. Apro la porta lentamente, cercando di prendere tempo, ma nemmeno se avessi davanti l’intera nottata, troverei un modo indolore per dire loro che Tobia è andato in cielo. E spesso, succede che le parole alle quali hai pensato tanto non servano, ci sono cose che si capiscono solo con uno sguardo. Le abbraccio, stringo le loro manine e mi fingo forte per dare a loro il coraggio di affrontare la realtà.
“Ascoltatemi: ora andate dal nonno, abbracciatelo e ditegli che non è colpa sua. Poi, andate a salutare Tobia.”
Carola ha voluto seppellirlo con la sua coperta di m&m’s, Emma le ha suggerito che sono dolci come lui. Ci stringiamo in un cerchio e lo salutiamo per l’ultima volta.

È una calda domenica di primavera, me ne sto sdraiata in giardino, guardando il prato che ho di fronte e quella piccola aiuola sulla destra, dove abbiamo messo un piccolo tagliaerba giocattolo: il simbolo di una delle sue grandi passioni. Sono passati quasi quattro anni da quel giorno, e oggi che vedo scorrazzare le mie bimbe felici, mi dico che è stato Tobia a trasformarmi in una mamma: con lui lo sono stata dal primo momento. Chissà dove vanno le anime belle e gentili come la sua? Io non lo so, ma so dove restano: nel cuore di chi le ha amate. Per sempre.

Illustrazioni: Valeria Terranova