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18 Gen

Spirit, cavallo selvaggio…e non è il film della DreamWorks

storie di ordinaria follia enrica alessi
storie di ordinaria follia enrica alessi
 
E
state 2015. La Giaco’s family sbarca a Porto Cervo piena di aspettative. Il mare è bellissimo, il territorio un po’ meno, ma dopo aver superato le prime difficoltà logistiche e le crisi isteriche — le mie — la vacanza ha inizio. Cominciamo a sentirci parte dell’isola, tanto da spingerci oltre la semplice scoperta di spiagge sconosciute, e una gita a cavallo sul mare non è una cosa da tutti i giorni, non per noi almeno. E così prenotiamo l’escursione tramite l’albergo, che viene fissata per il giorno seguente alle nove del mattino. Arriviamo a destinazione in orario. Giaco ha la faccia di chi è stato condotto qui a forza per accontentare la famiglia, le bimbe sono elettrizzate e io so’ io. Io sono quella che, quattro anni prima, aveva iniziato a prendere lezioni di dressage, e anche se il nome con i vestiti non ha niente a che fare, avrei imparato a cavalcare. Nonostante fossi cosciente che un pony sarebbe stato il destriero più adatto alla mia stazza, l’istruttore — marito di una mia carissima amica — aveva riposto in me una dose così massiccia di fiducia, da assegnarmi uno giovane stallone spagnolo alto quasi due metri: Burlon. Un dinosauro bianco pezzato e con le trecce, bellissimo. Sapevo tutto: testa dritta, sguardo in avanti, schiena verticale, gomiti vicino al corpo, punta del piede rivolta in avanti e tallone all’interno. Sì esatto, la teoria la sapevo tutta, ma la pratica? La pratica andò a farsi friggere il giorno in cui Burlon passò dal trotto al galoppo senza preavviso. Rimbalzai sulla sella per due volte e poi giù per terra: Burlon mi pestò — ma solo di striscio, tatuandomi lo zoccolo posteriore su avambraccio e ascella. Era un bel livido, ma mi aveva schivato la rinoplastica, non mi lamentai. Ricordo che il mio primo pensiero fu: ‘stasera ho una serata, il mio abito di Missoni è a maniche corte, come faccio?’ Riuscii a superare il trauma, ma solo quello fisico: il livido se ne andò in fretta, quello psicologico, invece, ci mise un po’ di più. Quella caduta aveva ucciso il mio briciolo di incoscienza. Quello che raramente si possiede, se sei una madre con figli. Non c’era più posto per una vita spericolata. Ma oggi è diverso. Oggi, davanti ai quattro cavalli su cui stiamo per salire, mi sento a mio agio. Anzi, sento crescere l’adrenalina, non vedo l’ora di battere quella sella. L’istruttrice è una signora sulla cinquantina, fisico asciutto, come il suo viso che porta i segni di un’abbronzatura selvaggia. Si chiama Marlena — come quella dei Måneskin, che allora manco esistevano. Si avvicina al primo dei cavalli per darci qualche indicazione tecnica: come si sale, come si tengono le redini, la postura da tenere in sella. Tutti ascoltano, io annuisco. Io so già tutto, ci sono già salita su un cavallo, trottavo alla grande, sì ecco, sono l’esperta di famiglia. Farò bella figura. A spiegazione finita, Marlena ci assegna i cavalli. Il primo è Giaco che si cucca Ungaro. Mannaggia, quello lo volevo io. Lui non se lo merita Ungaro. Non sa neanche come fa di nome e che abiti disegna. Speriamo nel prossimo. Ma l’istruttrice mi salta, e va dritta verso Emma che sta lì ad aspettarla, mentre sbatte gli occhioni.
“A te consegno Dollaro, è buonissimo.”
Emma annuisce sorridendo, e sale aiutata da Marlena. Ora tocca a Carola.
“Per te tesorino c’è Sigaro. È il più bravo di tutti.” conclude bisbigliando. Dunque ricapitoliamo: Ungaro, Sigaro e Dollaro. Ne resta uno solo, e ho paura che si chiami Tartaro.
“Signora…”
“Sì.”
“Il suo è Spirit.” dice soddisfatta.
Io me la sono già fatta sotto. Spirit. Spirit come Spirit, cavallo selvaggio? Non ci salgo su Spirit. Okay, ci provo. Non è male, se il cavallo non si muove. Fingo di sentirmi perfettamente a mio agio per incoraggiare le bimbe, mi do un contegno e faccio la mamma.
“Siete pronti?”
“Sì.” rispondiamo all’unisono.
“Andiamo…”
I cavalli si mettono in marcia, Marlena ci raccomanda di seguirla e di non farli mangiare lungo la via per non perdere il passo. E appena arriva un ciuffo d’erba, Spirit si china a prenderlo.
“Signora, lo tenga tirato.” mi rimprovera.
“Hai sentito? Non possiamo fermarci.”
Eccola, la donna che sussurrava ai cavalli. Tiro le briglie, batto i talloni e Spirit riparte. Sono rimasta un po’ indietro, ma riesco ancora a vedere la mia famiglia. Ecco, credo di essere entrata in sintonia con il mio cavallo, evidentemente anche lui: ha appena sganciato.
“Signora, lo tiri.”
Un altro rimprovero.
Ma insomma, non si può nemmeno… ehm… ci saranno quei momenti di privacy in cui non si vuole essere tirati, no?
“Arriviamo…” dico sventolando il braccio.
Spirit è di nuovo in pista, potrei mettermi al trotto e cercare di raggiungerli. Ma non mi sembra il caso, visto quello che ha appena passato. Li vedo ancora, non c’è fretta. Proseguiamo con la nostra andatura che sembra quello di un cavallo a dondolo e raggiungiamo un piccolo lembo di mare. L’acqua è cristallina, tira una leggera brezza e si respira l’aria di una favola.
“Tutto bene?” grida Marlena voltandosi verso di me.
“Sì, sì, stiamo arrivando.”
E le redini, di nuovo, tirano verso il basso, proprio davanti ai suoi occhi.
“Signora, le ho detto di tirarlo.”
E lui la fa lì, in mare, vedo le onde che la portano via. È una cosa naturale.
“Ho capito di tirarlo, ma il cavallo ha fatto la cacca.” grido.
Tutta la famiglia si mette a ridere, anche Marlena.
“Scusi, allora la aspettiamo.”
Meno male.
Sono passati tre anni da quell’estate, e penso che se Spirit non mi avesse concesso quel distacco, mi sarei persa lo spettacolo che può godersi solo chi sta in fondo alla fila. Le immagini di quella giornata felice sono nitide nella mia mente, e il merito è solo di Spirit, il mio cavallo selvaggio.
Illustrazione: Valeria Terranova