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19 Lug

Overdose di paracetamolo

Enrica Alessi Not For Fashion Victim

Enrica Alessi Not For Fashion Victim

I

l petto mi fa male, anzi malissimo. Mi chiedo se la grandezza di ciò che non ho investito ieri sera, sia direttamente proporzionale al dolore causato dal mio gesto. Credo di no: per quanto mi riguarda, poteva essere un bisante. Ho dormito pochissimo — forse anche per il mio primo appuntamento dopo secoli — e non vedo l’ora di corrompere l’innocente signora di ‘tè e biscotti’ per aggiungere una dose extra di antidolorifici. Mi farò bombardare di paracetamolo, tra ventiquattro ore sarò fuori di qui e domani sera, a costo di presentarmi con un deambulatore, sarò a cena con Luca. Non ho ancora pensato a cosa mettermi, ma non devo preoccuparmi: Cassandra mi ha già detto che, in via del tutto eccezionale, aprirà le ante dei suoi armadi e mi farà scegliere ciò che desidero. Rischiare di morire può avere i suoi vantaggi. E mentre mi immagino di fronte a quella lunga distesa di abiti appesi, il mio Dottor Shepherd entra in camera e mi saluta.
“Melissa, buongiorno.”
Mi coglie di sorpresa, come mai così presto? Addirittura prima della colazione?
“Buongiorno dottor… Savastano.”
Glielo leggo sul camice, nonostante la nube tossica causata dall’abuso di dopobarba, che mi fa quasi lacrimare gli occhi. È lo stesso che usa mio padre.
“Come si sente?”
Digli la verità, digli la verità, digli la verità.
“Un leggero fastidio, niente di più.”
“Ha due costole incrinate, non può essere solo un leggero fastidio. Sia sincera. Siamo medici: conosce anche lei le procedure della diagnosi…”
Se questo non mi rimette in piedi — entro domani sera — posso dire addio a Diet Coke.
“Mi fa malissimo. Ma devo tornare al lavoro, può aiutarmi? I miei pazienti mi aspettano.”
Lo sto quasi implorando e lui sorride come un ebete.
“Sono commosso dal suo senso del dovere.”
Sento puzza di guai — oltre che di dopobarba — dietro a quegli occhiali a fondo di bottiglia, il dottore sta sbattendo le palpebre come fa Minnie con Topolino.
“Be’ sì, poi ci sono certi tirocinanti… che è meglio tenere d’occhio.” dico tenendo lo sguardo lontano dal suo, mentre guardo la porta.
In questo momento, se fosse Britney a varcare quella soglia, creando un diversivo, sarei quasi felice di vederla.
“Ho un cane anch’io, sa? Credo che lo porterò da lei, d’ora in poi.”
Sembra quasi una minaccia.
“Che razza è?”
“Lolita è una deliziosa Bobtail.”
Lolita? Bobtail? Qualcosa mi dice che non sono coincidenze.
“E lei ha un cane?” mi chiede sorridendo.
Il suo battito di ciglia Intermittente mi ha fatto venire il mal di testa.
“Sì… è un Bobtail anche il mio, si chiama Max.”
“Ma tu pensa il destino. È incredibile! Potrebbero uscire a fare due passi, conoscersi, accoppiarsi…”
Sta parlando dei cani, vero?
“Max è stato sterilizzato. Purtroppo.”
Un’altra bugia: ormai ho perso il conto.
“Oh, che peccato.”
“Già.” dico con un’espressione falsamente delusa.
“Torniamo alle sue costole.”
“Giusto.”
“Potrei imbottirla di antidolorifici…”
Stavo pensando la stessa cosa.
“Ma la cosa migliore che può fare per guarire velocemente è riposare, non fare sforzi. Si prenda una settimana di riposo dal lavoro, legga un libro, guardi la tv, rimanga sdraiata il più possibile, si alzi solo per andare in bagno.”
Che cosa?
“Vede, domani sera, un’equipe di medici ha organizzato una conferenza importante, hanno bisogno del mio intervento, non posso mancare.”
Il suo sguardo da tenerone, tutto a un tratto, si indurisce.
“La conferenza dovrà fare a meno di lei, le vieto qualunque tipo di attività che possa aggravare il suo stato.” dice in tono deciso.
Non posso contraddirlo, peggiorerei solo le cose. Una volta uscita di qui, nessuno potrà fermarmi.
“Ho capito. Farò come dice.” concludo con tutta l’accondiscendenza possibile.
Il dottore prende in mano la cartella che sta appesa ai piedi del mio letto, estrae la penna che tiene dentro alla tasca del suo camice e si mette a scrivere.
“Melissa, credo che sia meglio tenerla qui un giorno in più, giusto per impedirle di fare stupidaggini.” mi annuncia con uno strano sorriso.
Deve avermi letto nel pensiero.
“No. La prego.” dico disperata. “Le prometto che me ne starò buona e tranquilla come mi ha suggerito, ma mi lasci tornare a casa…”
“Preferisco se resta qui… con me.”
Non voglio sembrare la solita esagerata, ma posso capire come doveva sentirsi Paul Sheldon in “Misery non deve morire.” So che non mi lascerà andare, anche il mio istinto testardo preferisce dissuadermi dall’insistere.
“Siamo d’accordo?” mi chiede, mentre ripone penna e cartella clinica nelle posizioni di origine.
“Siamo d’accordo.” rispondo sconfitta.
“Ora la saluto, ma tornerò presto.”
Questa è senza dubbio una minaccia. Il dottore lascia la mia stanza e io afferro il telefono in cerca di aiuto, ma è spento. Che ore sono? Le sette e mezza. Cassandra sarà qui tra poco, devo solo aspettarla e insieme risolveremo questo piccolo incidente di percorso. Potrebbe farmi fuggire, stasera, al tramonto, prima dell’ora cena, quando c’è il caos generale. Metterà un camice da medico, dopo averne tramortito uno, e mi condurrà fuori da qui con una carrozzina. A distrarmi dal mio piano di evasione è il ‘buongiorno’ squillante della signora del tè.
“Come si sente?” mi chiede.
“Ho visto giorni migliori.”
“Ah! Non si disperi, c’è di peggio.”
Certo: le guerre, la fame nel mondo, il surriscaldamento globale, ma anche il mio piccolo universo non se la passa benissimo. Annuisco. Ribattere servirebbe solo a peggiorare le cose e siccome muoio di fame, preferisco fare colazione. La signora appoggia il vassoio sul ripiano che sta a metà del letto e mi saluta, andandosene. Cassandra arriva dopo cinque minuti. Tiene in mano una borsa con dentro tutto l’occorrente per sopravvivere in ospedale: il carica batterie, il libro su Chanel, il mio iPad, una penna e la settimana enigmistica. Appoggia tutto sul comodino, mi aiuta a mettere in carica il telefono e io inizio a raccontarle la mia tragica mattina.
“Il dottore mi dimette giovedì.”
“È già passato a visitarti?”
“Stamattina presto.”
“Melissa, hai avuto un incidente, non puoi biasimarlo.”
“Ma da che parte stai?” E il mio appuntamento?” ribatto contrariata.
“Luca capirà…”
“Se gli avessi detto la verità, avrebbe capito, ma tu mi hai suggerito di rispondere al suo ‘come stai?’ con un ‘bene, grazie.’”
Cassandra arrossisce: è in evidente imbarazzo.
“Ero emozionata quanto te, non puoi farmene una colpa. E poi hai detto che a mandarti da lui è stato il tuo collega, a quest’ora lo avrà già saputo.”
Dovrei complimentarmi per la sua prontezza di riflessi mentali, ma sono più propensa a farle una domanda:
“Britney lo sa già?”
“Chi è Britney?”
Ops. Non le ho mai confessato che le ho affibbiato un soprannome — tanto meno che la odio.
“È un nomignolo che uso ogni tanto per Cristina, ma solo perché le assomiglia fisicamente.” dico in modo bonario.
“L’ho detto a Tommaso…” risponde.
Suo fratello.
“È sicuro: lo sa già tutto il paese.”
Lo sgomento nella mia conclusione potrebbe rivelarle quanto detesti la sua futura cognata, ma non mi importa. Abbasso la testa: mi sento di nuovo sconfitta. La sfortuna mi perseguita. Ma se ripenso ai miei guai, mi rendo conto che sono stata io a scatenarli, con le mie bugie. Le bugie che dico agli altri, a me stessa, e ogni volta che lo faccio, succede un disastro. Devo smetterla. Cassandra mi guarda dispiaciuta, sa bene quanto brucino le mie ferite. E non sono le costole, ma la mia dannata insicurezza, quando si mette in testa di comandare.
“Melissa devi dirgli la verità…”
Il suo tono dolce mi ha quasi convinta.
“Porti i segni dell’incidente, ti crederà per forza.”
Scoppia una risata: la sua.
Io, invece, cerco di trattenermi: anche ridere è diventato doloroso. Faccio una piccola smorfia, stringo i denti e riprendo il discorso.
“Lo farò.”
“Vuoi che gli scriviamo insieme?”
“No. Devo cavarmela da sola.”
“Sono fiera di te. E poi, ogni male non viene per nuocere — carrozzeria a parte — forse doveva andare così.” conclude con una scrollatina di spalle.

Ventiquattro ore dopo, sto per festeggiare le mie ultime ventiquattro ore qui dentro — con una doppia razione di biscotti e un litro di tè: sono tutta eccitata. Il dottor Savastano è già passato due volte a farmi visita, ed entrambe erano visite di piacere. Ho minacciato di denunciarlo per molestie. Come può pensare che una ‘Lolita’ possa accoppiarsi con un maschio sterile? Lui ha smesso di insistere, confermando le mie dimissioni per domani alle nove. Ora, viene la cosa più difficile: scrivere a Luca. E dire la verità.
“Ciao Luca, come stai?
La tua passeggiata a cavallo?
Ho avuto un incidente lunedì sera, niente di grave, ma ho due costole incrinate e il dottore ha preferito tenermi in ospedale un giorno in più.”
Eviterei di dirgli che ci ha provato. Non è un’informazione rilevante.
“Mi sarebbe piaciuto uscire con te e mi dispiace sabotare la nostra pizza, ma potremmo rimandare di una settimana, che ne dici?”
La domanda è indispensabile: è il solo modo per garantirsi un messaggio di risposta.
“Mi rimetterò in forma, prometto.”
Spingo la faccina che sorride, e aggiungo:
“Un bacio. Melissa.”
Invio.

Sono le otto, la cena è già stata servita e Luca non ha ancora risposto al mio messaggio. È un maleducato. Un codardo, un ipocrita. Ecco a cosa pensano gli uomini, solo a quello, e nel momento del bisogno, che fanno? Ti abbandonano. Conosco un solo esemplare maschio che fa eccezione: il mio cane. Giuro che non mangerò più pizza in vita mia, mi dico imbronciandomi. Mi volto verso la finestra, guardo fuori: nel buio, intravedo i rami spogli, avvolti da un filo di nebbia che si illumina con il pallore dei lampioni. Mi manca casa mia, mi manca Max: più di chiunque altro. Dovevo dargli buca. Se non mi fossi presentata all’appuntamento, senza nemmeno avvisarlo, ora sarei in vantaggio. Ma mi sono fidata e ho sbagliato. Penso sia un mix di rabbia e delusione a scatenarmi un certo appetito. E con tutte le cose che desidero mangiare, la prima a cui penso è la pizza. Mi sembra quasi di sentire l’odore. Mi volto verso la porta e vedo una pizza peripatetica in una scatola di cartone, proprio lì: davanti ai miei occhi.
“Non si può sabotare una pizza. Anche con due costole incrinate.”
Ritiro tutto ciò che ho detto sul suo conto: non è un maleducato, un codardo, un ipocrita. Gli uomini non pensano solo a quello. C’è anche chi, nel momento del bisogno, si presenta in ospedale con una pizza. A pensarci bene, quella in difetto sono io: struccata e spettinata. La parte di me che viaggia con il badile — per scavarmi le fosse con cui sotterrarmi, in caso di necessità — nel momento del bisogno, non c’è mai. Non so come e chi sia riuscito a corrompere, per riuscire a entrare fuori dall’orario di visite, ma ci è riuscito: Luca è venuto a trovarmi. È più bello di quanto ricordassi, più bello di come lo avesse creato la mia attività onirica. Si è superato: in tutti i sensi.
“Ciao.” dico, cercando di tenere a freno quell’espressione traducibile in: ‘ommiodio come sono felice di vederti.’
Si siede sulla poltrona che sta vicino al mio letto, e appoggia delicatamente il cartone caldo sopra le mie ginocchia.
“Cosa hai combinato?” mi chiede sussurrando.
È in quella domanda, avrei voglia di perdermi. Cosa ho combinato per essere finita qui? O cosa ho combinato fino a ora, prima di conoscerti? Se ha tempo gli racconto tutto, ma intanto mangiamo la pizza.

 

DICIASSETTESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova