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1 Feb

L’attimo fuggente…e non il film con Robin Williams

storie di ordinaria follia enrica alessi
storie di ordinaria follia enrica alessi
 
N
e avevo sentito parlare, una delle mie amiche era innamorata pazza di lui, lo nominava continuamente, scriveva il suo nome su ogni pagina del diario.
Lo avevo immaginato come un fustacchione dal sorriso super sexy, uno di quelli che ti ruba il cuore per buttarlo nel cestino dell’umido, ma io, di fatto, non sapevo nemmeno che faccia avesse.
Fino a che, un giorno, lo trovai alle superiori, nella mia classe.
Ricordo che quando lo vidi, mi misi a ridere. Tutto questo baccano per un ragazzino alto poco più di me, con i capelli ricci, gli occhi scuri e il sorriso… be’ il sorriso, quello era sexy davvero.
Ma è risaputo che l’amore è cieco: quando ti innamori non perdi solo la testa, ma pure la vista e l’attrazione sa sempre come trasformare un rospo in un principe, anche se hai solo quindici anni.
Giamma si era preso il mio cuore e anche le pagine del mio diario.
Scrivevo di lui tutti i giorni. Raccoglievo le testimonianze di tutte le mattine che passavo a scuola con lui. Un saluto, un avvicinamento, un abbraccio, un pacchetto di taralli insieme — vicino al distributore automatico.
Ma con il passare del tempo, avevo constatato che Giamma captava i segnali del mio corteggiamento a settimane alterne. Per sette giorni esistevo, per gli altri sette no, non ero proprio calcolata. Neanche al distributore dei taralli.
Ma come potevo lasciar perdere?
La mia era la generazione del ‘Carpe diem’, del ‘Cogliete l’attimo ragazzi, rendete straordinaria la vostra vita’. Dovevo solo aspettare il momento giusto — e farmi dare due dritte da un’amica che lo conosceva meglio di me.
“Giura che non lo dici nessuno!”
“Giuro!”
“Giuri giuri?”
“Giuro giuro.”
Mi fidai.
“Mi piace Giamma.” dissi arrossendo. “Tu credi che potrei piacergli?”
Sapevo che sarebbe stata sincera.
“Vuoi la verità?” mi chiese.
Non quella per cui si diventava buddisti, mi bastava che rispondesse sinceramente a quella domanda specifica.
“Certo…” mormorai.
“Secondo me non hai speranza.”
La salutai e andai a sotterrarmi nel campo vicino alla palestra.
Perché non avevo speranze? Perché la mia amica mi aveva demolito a quel modo? Poco importava, non ero disposta a lasciare perdere. Lo volevo e sarei riuscita ad averlo.
Passarono tre giorni e venne domenica.
Quella era stata una settimana no, a scuola non c’erano stati sguardi d’intesa, parole carine; non c’era stata nessuna magia. Le probabilità che la sfortuna mi abbandonasse erano inesistenti, ma decisi di non arrendermi. Lo avrei visto il pomeriggio in discoteca e avrei trovato il modo di parlargli dei miei sentimenti.
Il Goya era il locale più in voga del momento ed era frequentato da tutti i ragazzi della mia età. La maggior parte di loro non ci andava per ballare, ma per assistere alle performance artistiche di ‘Giz e l’amici sua’.
Giz era il ballerino più fico del reame, si esibiva sulle strutture sopraelevate che circondavano la consolle, il suo cavallo di battaglia era Vogue e il suo look da palcoscenico, seppure fosse semplice e basico, aveva il suo perché.
Il perché era indubbiamente il lato B che veniva messo in mostra grazie ai Levi’s usati che portava appena sotto le ascelle: un effetto push up naturale che meritava di essere brevettato.
Mi presentai all’ingresso nel tardo pomeriggio con l’invito omaggio rimediato per me e Paola, la mia migliore amica; mi guardai intorno cercandolo tra i ragazzi che stavano entrando, ma Giamma non c’era. Vidi, però, in lontananza, il suo motorino. Il bullit: il motorino più brutto che fosse mai stato costruito nel periodo che aveva accompagnato l’intera fase della mia crisi adolescenziale. Ma era quello di Giamma ed era l’unico su cui sarei voluta salire.
Entrai, ‘Giz e l’amici sua’ erano al solito posto, ma il mio attimo da cogliere era altrove e non riuscivo a trovarlo.
Di fronte alla pista c’erano due rampe di scale che conducevano a una pista più piccola che si affacciava su tutto il locale, era una sorta di osservatorio da cui avrei fatto le mie indagini a distanza, ma nemmeno da lì riuscivo a vederlo.
Avevo perso la speranza, la settimana sfortunata stava per finire, avrei confidato nella successiva che, secondo i miei calcoli, sarebbe stata sicuramente più propizia. Ma mentre stavo per scendere le scale reggendomi al corrimano, sentii qualcuno che chiamava il mio nome: era Giamma.
Capii di avere una speranza, quando vidi Paola andarsene per lasciarci soli. Mi disse che mi aveva cercato tutto il pomeriggio, che voleva parlarmi.
Lo baciai un’ora più tardi, sotto casa mia, sotto la pianta di ciliegio. Seduta sul sellino ergonomico del suo motorino.
Non era comodissimo, ma ebbi l’impressione di poter toccare il cielo con un dito. Mi aveva chiesto di diventare la sua ragazza e non sapevo se a rendermi tanto felice fosse l’amica che aveva sbagliato pronostico o la mia teoria delle settimane alterne che non si stava smentendo. O era l’attimo che avevo disperatamente cercato che aveva trovato me?
Due settimane più tardi, come da copione, Giamma mi lasciò per una ragazza che portava una quarta di reggiseno: la mia retromarcia non poteva competere.
Sono passati ventisette anni da allora: il Goya è stato chiuso, Giz gioca a tennis e io e Giamma siamo rimasti amici.
Ci sentiamo spesso, lui è un sarto che produce abiti su misura in giro per il mondo, io una scrittrice pazza che dice ciò che pensa.
Un paio di anni fa, mi ha proposto di lavorare insieme per realizzare un progetto video dedicato all’eleganza maschile.
“Mi scrivi tu le sceneggiature?”
“E chi sennò?”
Ora, grazie a lui, so anche che il principe di Galles si indossa solo fino alle cinque pomeriggio.
Illustrazione: Valeria Terranova