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15 Gen

La sindrome del cassonetto

crem's blog enrica alessi scrittrice

 

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S

apevo chi era, lo vedevo a scuola tutti i giorni, ma in comune avevamo solo la professoressa di tedesco. Era più grande di due anni e stava sempre con il suo migliore amico: Gughi, il più carino della scuola. Lui era Giaco. Lo avevo notato per la sua camminata curiosa, un mix tra quella dell’abominevole uomo delle nevi e quella di Don Ciak Castoro. Il mondo è piccolo, e qualche anno più tardi, lo ritrovai in una discoteca perché stava puntando una mia amica.
“Ho capito chi è…” le dissi felice “devi uscirci, sembra simpatico.”
“Ma io sono ancora innamorata dell’altro.”
“Chi? Il Capellone? Oh! Lascia perdere!”
“Dai, vieni che te lo presento.” mi disse trascinandomi per un quarto di pista.
Ecco, era di fronte a me: aveva abbandonato la sua andatura interessante per esibirsi in un balletto improvvisato su uno dei tavoli della discoteca. In quella posizione, regalava perle di saggezza e un mucchio di braccialetti.
“Cosa sta facendo?” le chiesi basita.
“Okay, forse ha bevuto un pochino, ma sta solo regalando qualche souvenir della Giamaica.”
“E perché?”
“È il suo ultimo viaggio. È tornato ieri.”
Era un cretino che faceva roteare braccialetti al vento per rimorchiare, eppure, mi divertiva. Mi avvicinai, mi prese la mano e mi fece salire sul tavolo con lui. Era come se tutto il mondo se ne fosse andato per lasciarci soli. Mi guardò, sorrise e disse:
“Mi vuoi sposare?”
Il silenzio si ruppe, e la musica e gli amici furono di nuovo attorno a noi.
Dovevo aver capito male.
“Quindi?” disse mentre mi offriva un braccialetto.
“A quante lo hai già chiesto stasera?”
“È la prima volta nella vita.” mi sussurrò.
Guardai verso il basso, aveva in mano una birra. Mi allontanai, portai con me il braccialetto che mi aveva regalato e scesi dal tavolo. Mi voltai, lo guardai e salutai la mia amica per raggiungere le altre. La mano destra non riusciva a staccarsi dalla cornetta del telefono. E con lei pure il braccialetto giamaicano. Era passata una settimana da quella sera e Giaco mi aveva appena chiamato per chiedermi di uscire. Alla mia amica non dispiaceva, lei era ancora innamorata del Capellone: avevo la sua benedizione. Non è che mi piacesse, mi stava simpatico, e per lui poteva essere lo stesso, ma ero certa che insieme ci saremmo divertiti. E così fu. Passò a prendermi sotto casa una domenica pomeriggio. A casa mia c’era il campanello ma non c’era il citofono. Se qualcuno suonava alla porta, noi aprivamo la finestra e chiedevamo: chi è? Stavo finendo di mettere il rossetto, quando sentì suonare il campanello. Ero certa che fosse lui. Chiesi a mio fratello di dirgli che sarei scesa in un paio di minuti. La finestra si aprì. Un ‘ciao’, un ‘arriva subito’ e la finestra si richiuse. Mio fratello si voltò verso di me e disse:
“Ma è un gran figo!”
Come se non lo meritassi.
“Si è un figo, e ora esco con lui. Ciao.” conclusi sbattendo la porta. Era una calda giornata di primavera e l’odore pungente del cassonetto si infilò dentro l’auto prima che potessi scansarlo chiudendo la portiera. Sorrisi nauseata e lui mise in moto. Aveva deciso di portarmi in un paesino di montagna a mangiare un gelato. Peccato che fossi intollerante al lattosio e soffrissi il mal d’auto. Avrei dato di stomaco. Ma poi cercai di distrarmi. Cominciai a parlare, per tutto il viaggio, e quando arrivammo a destinazione, io mi sentivo stranamente bene, lui era detonato.
Ci sedemmo su quelle seggioline blu, e decisi che un gelato non poteva farmi male. Poi fu lui a parlare di film, e io avrei voluto che continuasse per sempre. Mi riportò a casa, e mi salutò con un timido sorriso, ma i suoi occhi dicevano: un giorno sarai mia. E così fu. Mi chiese di sposarlo in una fredda sera di febbraio, dopo una lite furibonda. Giaco accostò l’auto davanti allo stesso cassonetto di fronte a casa mia. L’aria fredda aveva surgelato il suo odore pungente, e questa era la sola cosa di cui rallegrarsi. Ero una furia e attaccai:
“Stiamo arredando casa per andare a vivere insieme, e quando i nostri amici ci chiedono se ci sposiamo, tu rispondi sì, ma non me lo hai mai chiesto. Tu mi stai togliendo il sogno!”
“Non pensavo badassi a queste cose.”
“È da quando gioco a Barbie che bado a queste cose.”
“E allora sposami.”
Non era il cassonetto che scorgevo dal finestrino a scoraggiarmi, sì insomma, mi ero immaginata questo momento almeno mille volte, e anche se la pattumiera non faceva parte del mio sogno preconfezionato non era lei il problema, ma il fatto che avesse potuto chiedermelo solo per farmi contenta. Senza volerlo davvero.
“No. Io non ti sposo.” dissi uscendo di fretta dall’auto.
“Come? Cosa?”
Mi rincorse in giardino, poi per le scale. Pensavo a cosa fare, a cosa dire, e a quanto avessi bisogno di qualcosa di dolce in un momento come quello. Pensai al Kinder Bueno, alle sue cialde croccanti, alla crema di nocciole, e nel frattempo raggiunsi la porta di casa. Entrai e chiusi fuori Giaco con un paio di mandate. Mi lasciai cadere sul pavimento e aspettai. Il Kinder Bueno non sarebbe mai arrivato, ma lui continuava a chiamare il mio nome bussando alla porta.
“Mi fai entrare?”
“No.”
“La signora del piano di sotto sta minacciando di chiamare la polizia.”
Lo immaginai in una cella fredda e buia, in compagnia di un mastino di nome Bubba che gli avrebbe offerto protezione in cambio di… ed ebbi pietà, aprii la porta e lo feci entrare.
“Mi spieghi cosa c’è?” mi chiese prendendomi il viso tra le mani.
“Mi hai fatto una proposta di matrimonio su ordinazione, come credi che mi senta?”
“Non starai davvero dubitando che io voglia sposarti?”
“E allora avresti dovuto chiedermelo prima, di tua spontanea volontà.”
“Te l’ho chiesto la prima volta che ti ho vista…”
“Quella non vale! Avevi bevuto.”
“E te lo chiedo anche ora: vuoi sposarmi?”
“No.” dissi allontanandomi.
Corsi nella mia camera e richiusi la porta. Di nuovo. Piansi, senza nemmeno sapere perché. Era evidente che fosse dispiaciuto, ma non riuscivo a reagire.
“Enri…”
“Che c’è?”
“Io ti amo.”
“Anche io.” dissi scoppiando a piangere.
“Ti rendi conto?
“Di cosa?”
“Un giorno mi toccherà spiegare ai nostri figli che quando ti ho chiesto di sposarmi, tu hai risposto no, lasciandomi pure fuori dalla porta!”
“Non ti sposo e dici che avremo pure dei figli?”
“Apri. Per favore.” mi chiese con dolcezza.
Me lo trovai di fronte: aveva gli stessi occhi di Mortino di Madagascar e lo abbracciai.
“Figli? Quanti?”
“Intanto sposami.”
Si mise in ginocchio, baciò la mia mano e fece la sua proposta ufficiale. Non aveva un anello e nemmeno mi importava. In quel momento, la sola cosa che volessi davvero era un Kinder Bueno. Il cassonetto puzzolente tornò a farsi vivo, quando diedi a Giaco la notizia che stava diventando papà… Ma questa è un’altra storia.

Illustrazione: Valeria Terranova