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29 Dic

La letterina di Babbo Natale

l'amore ai tempi supplementari enrica alessi scrittrice

 

 

C

os’è questo tintinnio?
Grazioso, musicale. Concilia il sonno.
Un sottofondo, una ninna nanna.
Fino a un certo punto.
Improvvisamente è diventato fastidioso, insopportabile. Sollevo la testa dal cuscino, l’occhio sinistro dorme ancora, solo il destro si apre e vede il telefono.
Lo afferro di scatto, lo guardo e realizzo che sono le nove del mattino, che il tintinnio era la sveglia bellamente ignorata e che Michele mi sta chiamando.
“Non ho sentito la sveglia!”
Lo sto dicendo come se in modo virtuale alzassi le mani in segno di resa, come se questo bastasse a fermare l’aereo che partirà senza di me.
“È la quinta volta che ti chiamo, mi hai fatto prendere un colpo!”
“Dove siete?”
“Siamo appena partiti dall’albergo. Devi correre Eva…”
“Lo so! Aspettami!”
Riattacco e balzo giù dal letto.
Anche l’occhio sinistro si sveglia e aiuta l’altro a fare il punto della situazione.
Dunque, vediamo: le valigie sono pronte, ho preparato tutto ieri sera, prima di andare a dormire.
Dormire… non proprio.
Mi sfugge un sorriso compiaciuto. La mia ultima notte a New York, passata al telefono con Paolo, sperimentando la mia prima volta di sesso tantrico telefonico. Chi lo avrebbe detto che la simulazione mescolata all’immaginazione potesse produrre effetti tanto soddisfacenti? Peccato che non abbia il tempo di soffermarmi sui dettagli — e concedermi un’altra pausa di piacere.
Eva, concentrati: ciò che devi fare, adesso, è correre in bagno, prepararti alla svelta e fiondarti in aeroporto.
Mi lavo i denti e controllo il mio aspetto,
potrei evitare il trucco: ho il viso rilassato. Chiudo la trousse del make-up e la infilo nella valigia che è rimasta aperta. Poi apro l’armadio e lì, vicino all’asse da stiro, che è rimasto in posizione verticale per tutta la settimana senza mai scomodarsi, trovo appesa la mia mise da partenza.
Jeans Don’t Cry, blazer Balmain, maxi sciarpa in cashmere Fabiana Filippi e cappotto Chanel — come lo stivaletto.
Anche la borsa è già stata preparata, devo solo vestirmi e uscire dalla stanza.
E mentre infilo i jeans, cerco di rallentare i movimenti, concedendomi qualche secondo extra per salutare New York, in particolare quel pezzetto rettangolare che vedo dalla mia finestra, la mia cartolina personale: ciao piccola Grande Mela.
Finisco di vestirmi e controllo l’orologio, non c’è tempo per chiamare il check-out, faccio da sola. Chiudo la valigia e la trascino fuori dalla porta insieme al trolley di Hello Kitty per Sofia.
Li afferro entrambi e mi dirigo verso l’ascensore. Lo chiamo, lui arriva.
Le porte si aprono: c’è solo un ragazzo che è salito prima di me, entro e resto sola con lui. Il piano della hall è già stato premuto, controllo ancora l’orologio e so che posso farcela. Arriverò all’imbarco correndo, forse sarò l’ultimo passeggero del volo, ma il capitano non partirà senza di me: ho una figlia a casa che mi aspetta. E mentre penso al sorriso di Sofia, l’ascensore si blocca: uno scossone e il cuore mi rimbalza in gola.
No. Ti prego Signore no.
Dimmi che è uno scherzo.
Dopo cinque secondi e mezzo, realizzo che non sta scherzando: è tutto vero. Finiremo su Real TV.
“Stiamo calmi, ci tireranno fuori di qui.”
Il ragazzo ha parlato e seppure abbia capito ogni parola, è il tono della sua voce a non essere rassicurante: sembra che abbia dimenticato di aggiungere ‘vivi o morti’. E se fino a quel momento non avevo valutato la possibilità di farmi venire un attacco di panico, ora mi sembra l’idea più appetibile. Ma una parte di me, quella più reattiva, non sembra essere d’accordo: premo il tasto di chiamata.
Deve pur esserci un addetto alla manutenzione pronto a intervenire.
Mi sembra quasi di vederlo: tiene in mano la cassetta degli attrezzi e sotto la divisa, la maglia in lycra di Superman. Ma l’immagine positiva prodotta dal mio inconscio non si materializza, nessuno risponde.
Anche il ragazzo sta lì impalato senza muovere un dito. Mi attacco al pulsante dell’allarme e vado in allarme pure io.
Nessuno fa niente, nessuno dice niente.
“Faccia qualcosa, santo cielo!”
Sono così agitata che lo dico in italiano, come se potesse capirmi, ma lo vedo dai suoi occhi che non è così.
Quanti secondi mi restano prima di perdere il controllo? Troppo pochi. Afferro il telefono e faccio l’ultimo tentativo: chiamo il 911.
E mentre penso che questa sia la situazione più frustrante che mi sia mai capitata, la chiamata si interrompe per mancanza di campo e le luci si spengono.
Deglutisco. Detesto gli spazi chiusi, il buio e l’incapacità di gestire la paura che si mescola allo sgomento.
Gli occhi si fermano a fissare il piccolo neon di emergenza, non riesco a dire niente, ma è il linguaggio del corpo a parlare per me. La spalle si appoggiano alla parete, le mani raggiungono i capelli e le gambe cedono, si flettono, decidono in modo autonomo di farmi sedere, come se avessero considerato l’eventualità di perdere i sensi limitando i danni.
Faccio un respiro profondo, ma sento il corpo rigido, sto per piangere.
“Calmati, respira…” suggerisce il ragazzo chinandosi verso di me, ma io sono già in una valle di lacrime.
“Ci ho provato, non funziona…”
Sto singhiozzando in inglese: è comunque un traguardo, visti i miei limiti.
“Ascolta: siamo chiusi dentro a uno degli ascensori del Mandarin Oriental di New York, si saranno già accorti del guasto, dobbiamo solo aspettare…”
“Il mio aereo sta per partire.” ribatto disperata. “Non posso aspettare.”
“Come ti chiami?”
Me lo chiede dopo essersi seduto vicino a me, come se niente fosse. Avrei voglia di porgli una domanda più pertinente: hai capito che siamo bloccati al trentesimo piano? Ma mi trattengo. Credo che stia tentando di avviare una conversazione a scopo terapeutico, giusto per evitare il silenzio che a sua volta provocherebbe panico e disperazione, e non posso fare altro che assecondarlo.
“Mi chiamo Eva.”
“Piacere, Steven.”
Mi porge la mano per presentarsi in modo ufficiale, la stringo, ma sono a disagio: è un estraneo.
“Sei sposata?”
Non crederà davvero che mi metta a parlare della mia situazione amorosa?
Guardo il soffitto, più precisamente la botola di servizio, potrei forzarla per uscire, ma soffro di vertigini e non riesco a immaginarmi mentre cammino in punta di piedi nel pozzo dell’ascensore. Con la fortuna che mi ritrovo, riprenderebbe a funzionare schiacciandomi sulla parete per poi fulminarmi. Preferisco soffermarmi sulla mia relazione complicata.
“Mi sto separando, ma abbiamo una figlia, si chiama Sofia e ha quasi otto anni. E tu?”
“Sono sposato, mia moglie si chiama Laura e aspettiamo un bambino.”
Quindi anche lui ha una famiglia che lo aspetta? Entrambi siamo stati travolti dallo stesso destino infelice?
“Congratulazioni…” mormoro. “E non hai paura?”
“Di diventare padre? Abbastanza.”
In realtà mi riferivo all’ascensore, ma non ci vuole un genio per capire che sia altro a preoccuparlo maggiormente.
“Ce la farai. Sarai un buon padre, ne sono sicura.”
È incredibile. Non avrei mai pensato che sarei stata io a fargli coraggio. Non lo conosco nemmeno, ma mi fa tenerezza.
“Non credo di essere nemmeno un buon marito…”
Guardo l’orologio, sono già passati cinque minuti e nessuno si è fatto vivo. La situazione si complica: credo di essere la persona meno indicata per confortare un cattivo marito, ma non ho altra scelta.
“Se tradissi tua moglie saresti un cattivo marito, ma non è così, vero?”
Rimane in silenzio guardandomi con una strana espressione: mi sto sbagliando? Anche lui tradisce sua moglie con una Lego Friends?
D’improvviso si alza e si dirige deciso verso il quadro dei pulsanti.
“Fammi fare un tentativo…” mormora.
Lo vedo premere il tasto di apertura, una, due, tre volte. La luce ritorna e le porte si aprono — anche se di fronte a una parete di cemento — poi si richiudono e l’ascensore riparte.
Anche il display che segnala il numero dei piani riprende a funzionare: siamo in discesa libera. Steven si volta verso di me soddisfatto e io gli sorrido.
Mi alzo da terra, stringo i manici delle valigie per prepararmi a una corsa, e nonostante sia consapevole che tra pochi secondi saremo fuori di qui, preferirei non rispondesse alla mia domanda, non voglio sapere se tradisce sua moglie, meglio restare con il dubbio.
Le porte si aprono ed entrambi usciamo per dirigerci alla reception.

Dopo trenta minuti, sono davanti all’aeroporto e il merito è solo del tassista che, commosso dalla storia madre-figlia, ha superato tutti i limiti di velocità per accompagnarmi al JFK in tempi record.
Scendo al volo e mentre lui recupera le valigie dal bagagliaio, io preparo i documenti per l’imbarco.
Gli lascio una mancia generosa — dovrà pagarci le multe — lo ringrazio di nuovo e mi saluta dicendo ‘che Dio ti benedica’.
Ne ho bisogno: speriamo.
Raggiungo l’ingresso è corro al check-in.
Imbarco le valigie, non pago neppure il sovrapprezzo per quella di Sofia e ai controlli non mi fanno togliere le scarpe.
In quel momento di apoteosi biblica, comincio a preoccuparmi: sta filando tutto liscio. Ma poi, ripenso a quello che ho appena passato in ascensore e mi dico che, forse, un po’ di fortuna me la merito.
Arrivo al gate, vedo Michele e Raffaello e finalmente mi rilasso. Dovrei anche fare colazione: ho fame da stamattina.

In aereo ho deciso di non bere, ma solo perché sono a stomaco vuoto. Sarà un lungo viaggio e non voglio sprecarlo dormendo. Preferisco torturarmi di domande riguardo al pranzo di Natale che mi aspetta. E davanti al cabaret che sembra un pranzo+merenda, piuttosto che una colazione, faccio il pieno di calorie e il cervello si mette in moto.
Il mio posto è vicino al finestrino, Michele e Raffaello occupano il resto della fila: è strano vederci tutti e tre insieme, eppure mi piace. Il mio sguardo si perde tra le nuvole cercando chissà che, ma riconosco questa fase: è la prima che affronto alla fine di ogni viaggio, in cui faccio un bilancio, soffermandomi sugli aspetti che hanno contribuito a cambiare me e il mio modo di vedere le cose: è più facile guardarsi dentro, quando si è lontani da casa. Specie se chi ti siede vicino, ti conosce meglio delle sue tasche.
“Malinconica?”
“Pensierosa.”
“Quando un pensiero ti domina, lo ritrovi dappertutto, lo annusi perfino nel vento…”
“Michi! Mi sorprendi! È tua?”
“No, di Thomas Mann.” risponde prontamente sorridendo.
“E quale sarebbe il pensiero che mi domina? Stupiscimi ancora…” dico in tono provocatorio.
“Ce n’è più di uno, ma il primo che mi viene è: cosa succederà il giorno di Natale?”
“Era facile. Non vale.”
Ma mentre lo guardo con occhi divertiti, mi accorgo che sto scrutando i suoi sperando di trovare la risposta.
“Posso continuare se vuoi…”
“Puoi abbassare la voce?” sussurro imbarazzata.
“Lello sta dormendo, ci siamo solo tu e io.”
“E mezzo aereo.” puntualizzo.
“Okay, parlo piano.”
Michi si siede sul fianco e io mi ritrovo a fare lo stesso per guardarlo in faccia, aiutandomi con il labiale.
“Ti starai chiedendo: perché Andrea non ci sarà? Devo aspettarmi un riavvicinamento da parte di Davide? E in questa eventualità, come reagirei? Sarei disposta a perdonarlo per il bene di Sofia? E Paolo? Sono davvero innamorata di lui?”
Lo dice tutto d’un fiato. Agitando la testa, quasi volesse scimmiottarmi.
“Ho indovinato C***secco?”
Tutto. Esattamente. Ha pure rispettato l’ordine delle domande.
Nella mia testa, avevo immaginato un auto interrogatorio da prendere a piccole dosi, durante il volo. Lo avevo immaginato pieno di ‘se’, di ‘forse’ di ‘ma’. La mia mente perversa avrebbe tergiversato fino all’atterraggio, senza giungere a nessuna conclusione. Ma la concretezza di Michele mi sta dicendo che non importa se siamo a diecimila metri di altezza, ora devo mettere i piedi per terra e affrontare la realtà. La vita è tutta un quiz, e se qualcuno può aiutarti a rispondere alle domande, diventa tutto più facile.
“Andiamo per ordine: Perché Andrea non ci sarà? Non mi interessa. E non ho motivo di credere che Davide voglia tentare un riavvicinamento, ma anche se fosse, potrebbe essere solo un riavvicinamento di tipo genitoriale.” dico risoluta.
“E se lui tornasse implorando il tuo perdono?”
Quante volte ho immaginato questa scena? Quanto volte ho desiderato vederlo strisciare ai miei piedi? Ma la voglia di vendetta è scomparsa da tempo, ora non mi importa più.
“Il perdono gli è già stato concesso: è il padre di mia figlia, non posso continuare a odiarlo…”
Il mio tono deciso si spegne.
Forse sono io quella che non riesce a perdonarsi di aver lasciato andare Occhi di Cioccolato. Ma poco importa, indietro non si torna e di lui resta soltanto quel sapore amaro che senti sulla lingua, prima di lavarti i denti.
“Sofia ci terrà uniti per sempre, ma non lo saremo più in quel modo… Siamo cambiati, le cose sono cambiate.”
Michi non dice niente, ma capisco dal suo sguardo che le domande non sono finite. È come se volesse accertarsi che i miei dubbi siano scomparsi e c’è solo una cosa da fare per chiarirlo.
“Per quanto riguarda Paolo, invece…”
I suoi occhi si accendono, lo vedo pendere dalle mie labbra, credo che sia questo il tassello che gli interessa di più e non voglio lasciare spazio a equivoci.
“Ho superato la fase in cui credevo che la nostra fosse solo una storia di sesso tantrico… sono innamorata di lui.”
Arrossisco mentre lo dico. Mi mancano i suoi baci, la sua voce calda, mi manca lui.
“Vuoi la verità?” mi chiede.
Certo che la voglio.
“Non gli avrei dato nessuna chance: manco ti ricordavi chi fosse… e invece mi sbagliavo.” dice soddisfatto. “E penso anche che la vita, ogni tanto, abbia voglia di mescolare le carte per spronarci a essere ciò che vorremmo essere, e nel tuo caso, ne è valsa la pena.”

Sono a casa. I piedi hanno toccato terra, la vita vera mi aspetta e anche la letterina di Babbo Natale. Passo a prendere Sofia tra un paio d’ore, e devo prima passare dal centro a recuperare i regali che sono stato descritti minuziosamente su questo pezzo di carta colorato.
Infilo il cappotto ed esco di casa.
Le scarpe che mi ha regalato Raffaello sono comodissime e un apprezzamento come questo, fatto a un tacco dodici, direi che vale doppio.
Recupero le chiavi dell’auto, spingo il pulsante di apertura e ad attirare la mia attenzione non è il brevissimo cicalio seguito dal rumore delle serratura che si aprono, ma un ‘ehi’ che sento provenire da dietro il cancello ancora chiuso.
È Davide.
“Bentornata.” aggiunge.
È evidente che le improvvisate non lo spaventano. Apro il cancello e me lo trovo di fronte con una borsa gigante piena di giocattoli incartati.
“Babbo Natale arriva la notte della vigilia… perché sei in anticipo?” chiedo divertita.
“Temevo, anzi Sofia temeva, che avessi dimenticato di imbucare la letterina, così ne ha scritta una anche per me: l’ho seguita nel dettaglio e questi sono i regali. Vuoi che ti aiuti a portarli in casa?”
Ecco il riavvicinamento che non avevo preventivato, ma è pur sempre di tipo genitoriale e non posso tirarmi indietro.
“Grazie.” mormoro. “Sì, entra.”
Salgo le scale, lui mi segue. vorrei voltarmi e valutare l’espressione del suo viso, ma non ne ho il coraggio, penso solo che è Natale e a Natale è quasi d’obbligo dimenticare le liti, i rancori, il divorzio.
Apro la porta di casa, lo faccio entrare.
Appoggia il borsone sul pavimento, dà un’occhiata in giro, poi si ferma e guarda me.
“Com’è andato il viaggio?”
“Molto bene, grazie.”
Stiamo conversando del più e del meno? Senza insultarci? Senza litigare? Siamo noi o è solo lo spirito del Natale?
Anche la sua presenza non mi infastidisce ed è la prima volta, dopo tanto tempo.
C’è persino il sole. La benedizione di quel tassista di New York deve aver funzionato.
“Vuoi un caffè?” gli chiedo.
“Volentieri.”
Raggiungiamo la cucina, Davide si siede a tavola, io prendo posto di fronte a lui e nonostante l’imbarazzo calcolato, sento che entrambi abbiamo il desiderio di parlare.
“Sofia sta bene? Non vedo l’ora di abbracciarla… mi è mancata moltissimo.”
“Anche tu le sei mancata. Parlava di te continuamente, è fiera di ciò che fai, sei la sua eroina.”
Il suo sguardo è pieno di ammirazione: il trasporto di Sofia deve essere contagioso.
“Non ho ancora fatto niente… ma sono sulla buona strada.” dico sorridendo.
Gli porgo la tazza di caffè, il bricco di latte, lo zucchero e sento i suoi occhi su di me.
“Sei diversa…” mormora.
“In che senso?”
“Ricordo chi vedo adesso: la ragazza degli orsetti, quella che mi ha fatto perdere la testa. È tornata.”
Rimango spiazzata dalla sua affermazione. Michele se lo aspettava, io ho preferito scansare l’idea e le ragioni mi sembrano ovvie. Ma ciò che penso a riguardo è già stato abilmente riassunto dal mio migliore amico e non credo che potrei esprimerlo usando parole migliori.
“La vita, ogni tanto, ha bisogno di mescolare le carte, sembra che voglia spronarci a essere ciò che vorremmo essere, e quello che è successo, forse doveva succedere… per il bene di entrambi.”
Lo vedo sorseggiare il caffè con un’espressione delusa, anche lui non si aspettava una risposta come questa.
E per quanto sia assurdo, il momento che ho aspettato tanto, l’attimo che mi basterebbe cogliere per far tornare tutto come prima, non mi serve più: sono io che non voglio tornare sui miei passi.
“È davvero finita?” mi chiede guardandomi.
L’istinto mi impone di allungare una mano verso il suo viso, di accarezzarlo.
Anche lui trattiene la mia mano con la sua. Una manciata di secondi, niente di più, ma mi basta per capire che l’amore che ho provato per l’uomo che ho di fronte è scomparso irrimediabilmente.
“Saremo uniti per sempre, lo sai meglio di me, ma non possiamo tornare a essere ciò che eravamo.”
La sua mano lascia la mia, il braccio si ritrae e rimaniamo in silenzio. Quanti minuti occorrono per accettare che una storia d’amore è finita per sempre?
“Ora devo andare.” dice alzandosi.
Lo accompagno alla porta, fisso la borsa dei regali che è rimasta vicino all’ingresso e mi si stringe il cuore.
Afferra la maniglia, sta per andarsene, ma d’improvviso si volta, mi stringe, mi bacia. Non riesco a sottrarmi: è un bacio di addio e credo sia dovuto.
“Ci vediamo domani da mia madre?”
“Ci vediamo domani.”
La porta si chiude, resto lì a guardarla, quasi stesse a simboleggiare il risvolto imprevisto che ha preso la mia vita e non voglio riaprirla.

 

TRENTASEIESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova