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7 Feb

Il colore della felicità: giallo paglierino

enrica alessi scrittrice

enrica alessi scrittrice

E

mma ha sei anni e deve andare in gita. È una calda giornata di aprile, la primavera è arrivata e la prova costume si avvicina. Sono già passati due giorni da quando ho cominciato la mia dieta e la prima delle sue regole è: ‘bevi tanta acqua’. Il terzo giorno mi sento gnocca come Rihanna. Ora, la mia vita è uno slogan: fare tanta plin plin, l’acqua che elimina l’acqua, puliti dentro belli fuori, e altissima… no, la Levissima con me non ha mai funzionato. È diventata una promessa: bevo almeno una bottiglia d’acqua al giorno. E oggi non faccio eccezione, dico mettendone una nella borsa.
È la mattina della gita, Emma è in soggiorno che si guarda intorno, sta cercando qualcosa.
“Emma sei pronta?”
“Quasi.”
“Cosa ti manca?”
“Il mio libro degli animali, la macchina fotografica, il cerchietto con il fiocco e lamucchinacè.”
“Si dice: La – spazio – Amuchina – spazio – Gel.” Spiego, accentuando la L finale senza scoppiare a ridere.
“Vabbè, quella lì.”
“Quindi? Dov’è questa roba?”
“Ci sto pensando.”
“No amore. È tardi. Perdiamo il pullman.”
E quando dici una cosa così: vedi il terrore negli occhi di tuo figlio.
“No mamma no.”
La vedo scattare e in sette secondi recupera tutto. Si siede sul tappeto e mette le sue cose nello zainetto.
“Possiamo andare adesso?”
“Sì.”
“Infilati la giacca.”
“No. C’è caldo.”
“Perdiamo il pullman.”
“Okay.”
Saliamo in macchina e ci mettiamo in cammino. Dallo specchietto retrovisore, vedo che Emma sta leggendo il suo libro.
“Amore non leggere in macchina. Sai che poi stai male.”
“No oggi no. Ascolta: il lemure catta…”
“Il lemurechi?” la interrompo.
“No mamma: il – spazio – lemure – spazio – catta. Capito?”
“Sì.” sussurro trattenendo una risata.
“Allora: vive in Madagascar, ha il muso di una volpe, ma è grande come un gatto, solo con una coda più lunga. Per capire la sua età si guarda il colore degli occhi, se sono azzurri è piccolo, se sono nocciola è adulto. Si ciba di…”
“Ti ascolto…”
“Mamma ho il vomito.”
“Te l’avevo detto!” dico preoccupata. “Vuoi che ci fermiamo?”
“No, no. Non voglio mica perdere il pullman.”
Controllo dallo specchietto retrovisore che il libro sia chiuso, ma appena i miei occhi tornano sulla strada, qualcosa colpisce il vetro dell’auto. Ommiodio! Mi sento come Tippi Hedren in “Uccelli” di Hitchcock: un piccione è appena caduto in picchiata sul parabrezza. Lo vedo svolazzare dal lunotto posteriore: sembra essersi ripreso.
“Ma cosa è successo?”
“Niente amore…” rispondo nervosa.
“Eppure, ho sentito un botto.”
“Un uccellino si è ‘posato’ sulla macchina della mamma.”
“E adesso? Dov’è andato?”
“In cielo.”
“È volato via?”
“Più o meno.”
“Mamma, lo hai ucciso?”
“Amore stava volando, magari non benissimo, ma se vuoi torniamo indietro a vedere.”
“Hai detto che l’ultima volta che lo hai visto volava?”
“Sì.” rispondo sincera.
“Allora speriamo che continui a volare. È tardi.”
Nella vita ci sono delle priorità. Anche a sei anni.
Faccio la curva, imbocco la via del ritrovo e vediamo il pullman davanti a noi. Emma saltella felice. Cerco un parcheggio, ma i più vicini sono tutti occupati, ne trovo uno a trecento metri: dovremo correre.
“Amore: metti il libro nello zaino, dobbiamo fare presto.”
Scendiamo dall’auto, le sistemo lo zainetto sulle spalle e mi volto per capire quanto siamo distanti. Direi abbastanza: da qui il pullman è solo un puntino nero. Prendo Emma in braccio per un tratto, il polmone destro mi collassa a metà tragitto, ma niente è perduto. Mi abbasso per lasciare andare le braccia che la sorreggono e la faccio scendere. La prendo per mano e ci mettiamo a correre verso quello che ha già le sembianze di un mezzo di trasporto. Finalmente lo raggiungiamo. Siamo stremate. Le offro da bere, ma è troppo eccitata, deve prendere posto vicino alle sue amiche. Io la seguo, cercando di rispettare la sua privacy. Trovo una posizione discreta per tenerla d’occhio, guardo fuori dal finestrino e bevo un po’ d’acqua. Dopo un’ora, entriamo al Parco Zoo Safari con il nostro pullman. Sembra un vero Safari africano. Lungo il percorso, a pochi passi dei finestrini, ci sono molti animali. Antilopi, gnu, leoni, iene, ghepardi. Emma non vede l’ora di scendere, io di trovare un bagno alla velocità della luce. Le porte si aprono e il rumore non aiuta. Fingo di pensare ad altro, di capire alla perfezione tutto il tragitto, gli orari di ritrovo, e appena mi libero, affido Emma a una delle mamme del gruppo per fiondarmi nella prima toilette del parco. Ma come diavolo mi sono vestita? Tutina color kaki abbinata a un paio di stivali in pelle nera: sembro John Francis Smith, il ranger dell’Orso Yoghi. La mise è sicuramente a tema, ma questa cosa non si toglie e la mia vescica sta esplodendo. Stupida cerniera. Dopo tre minuti, mi sento una donna migliore. Esco dal bagno sollevata, mi lavo le mani e raggiungo Emma nel gruppo. La nostra gita può ufficialmente cominciare. Passiamo al setaccio tutte le forme di vita terrestri, e dopo quasi tre ore di spiegazioni che tra dieci minuti avremo già dimenticato, arriva il momento più atteso: il pranzo al sacco, il tripudio dei panini e della carta stagnola. Raggiungiamo un punto di ristoro, prendiamo posto a uno dei tavoli e ci mettiamo a mangiare. Guardo la mia bottiglia del giorno e noto che ne ho bevuto soltanto un quarto: devo recuperare o addio Rihanna. Emma e le sue amiche si mettono a giocare, io le raggiungo e scatto qualche foto. Mentre sono lì a selezionare le migliori, si avvicina una donna: in una mano tiene quella del figlio, nell’altra la mappa del parco.
“Scusi, le Tigri di Sumatra?”
La so. La so. Le abbiamo viste prima, ma non riesco a ricordare il punto preciso.
“Dunque, vediamo… Emma, ti ricordi dove sono le tigri?” chiedo voltandomi verso di lei.
La signora mi guarda con un’espressione che fatico a decifrare, sembra sorpresa.
“Ma lei non è una delle guide dello Zoo?” mi chiede indicando la mia tutina .
Vorrei mettermi a ridere per quanto sono imbarazzata, ma se ci fosse una premiazione per il miglior dress code della gita, io lo vincerei.
“No, mi spiace.”
La vedo allontanarsi di corsa, quasi volesse che la conversazione che si è appena conclusa non fosse mai esistita, la seguo con lo sguardo finché mi è possibile, poi scompare per sempre. Le maestre richiamano i gruppi in un punto comune per organizzare la partenza, lo raggiungiamo e ci incamminiamo verso il pullman. La mia bottiglia d’acqua non è nemmeno arrivata a metà, devo assolutamente finirla, mi dico, mentre i bambini cominciano a salire. La impugno decisa e la finisco prima di raggiungere Emma che già mi sta aspettando. Dopo quindici minuti dalla partenza, arriva un attacco irrefrenabile di pipì. Provo ad accavallare le gambe, prima una, poi l’altra. Poi mi alzo, poi mi siedo. Mi scappa, mi scappa fortissimo. Tutta colpa di Rihanna. Cerco di scrutare i visi dei bambini: ci sarà pure qualcuno di loro che deve andare in bagno… e invece, della pipì non importa a nessuno. Se non corro dall’autista a chiedergli di fermarsi, potrebbe essere troppo tardi.
Mi avvicino al posto di guida lentamente, tenendo le cosce il più vicino possibile tra loro, nel tentativo di esercitare una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido da trattenere, che se si sposta ciao.
“Senta, mi scusi, possiamo fermarci al primo Autogrill?”
“Si sente male?” mi chiede.
Se devi fare pipì e non puoi, è ovvio che stai male, sento addirittura le mani che mi formicolano, ma inventarmi una bella colica renale sarebbe più d’impatto.
“Credo di avere una colica renale.”
“La prossima stazione è a dieci chilometri. Ce la fa?”
“Speriamo.”
Faccio un breve calcolo: se l’autobus percorre una velocità di novanta chilometri orari e il prossimo Autogrill dista una decina di chilometri, quanto tempo mi rimane per non farmela sotto? Mi rimetto seduta, cercando di non dare nell’occhio, quando vedo l’autista prendere il microfono e fare un annuncio.
“Allora, dobbiamo fermarci per un’emergenza.”
Brusio generale, voglia di morire.
“Arriveremo al prossimo Autogrill tra cinque minuti…”
Dio sia lodato.
“Quindi, se qualcuno di voi lo desidera, può fare una sosta.”
Quando scenderemo tutti insieme, nessuno saprà che ci stiamo fermando a causa mia.Il pullman parcheggia e io sono già davanti alla porta in trepidante attesa, ma dietro di me non vedo nessuno. La mia copertura è appena saltata. Scendo di corsa e mi precipito in bagno. Chiudo la porta e mi sembra di vivere una situazione tipo parto: controllo il respiro, mantengo la calma, ma qualcosa non va: la cerniera si è inceppata di nuovo. La sblocco, lei si apre e lì, finalmente seduta su quel water, capisco che anche la felicità ha un colore, e il giallo paglierino ha sempre il suo perché.

Illustrazione: Valeria Terranova