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16 Gen

I veri amici si vedono nel momento del trasloco

not for fashion victim romanzo enrica alessi

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Q

uando si archivia un Natale, non pensi solo: ma chi me l’ha fatto fare di mettere tutte ste’ palline attorno all’albero? Pensi anche che un periodo si chiude, che la primavera sta arrivando, che Cassandra sta per andarsene.
E nonostante abbia avuto tempo per metabolizzare la cosa, più il momento si avvicina, più diventa difficile accettare che stia lasciando questa casa per non tornare più.
Guardo gli scatoloni sparsi in soggiorno: sembrano gli stessi che avevamo quando ci siamo trasferite qui, qualche anno fa, era l’inizio di un’avventura che pensavamo potesse durare per sempre.
Mi sarei scrollata di dosso le delusioni di un passato che non mi apparteneva più e avrei ricominciato. Una nuova casa, una nuova vita, una nuova Melissa.
I suoi vestiti colorati avrebbero contagiato il grigiume dei miei libri e tutto ciò che ci stava intorno sarebbe cambiato. La nostra sinergia avrebbe prodotto un campo magnetico di energia positiva capace di tenerci lontane dai guai, e anche se non sempre è andata così, gli anni che ho trascorso qui con lei sono stati i migliori.
Vorrei nascondermi dentro a uno degli scatoloni, mescolarmi a quelli del trasloco e seguirla, ma il mio posto è qui, con Max.
E con il presepe: quest’anno non ci siamo fatte mancare niente. Non finirò mai.
Quante statuine saranno? Almeno venti, senza contare pecorelle, porcellini e ochette che arredano il paesaggio. Le palme, il muschio rinsecchito, i Magi, la stella cometa e il lago artificiale di carta stagnola. Alla fine arriva anche il turno di Gesù bambino, e nonostante mi renda conto che abbia già fatto tanto per il genere umano, mi allargo e gli chiedo di assistermi: Cassandra sta per salutarmi.
Sollevo lo sguardo e non capisco se è lei a scendere le scale lentamente o se sono io a vivere la scena a rallentatore.
Ripongo l’ultima statuetta nella scatola e mi volto verso di lei con l’aria di chi aspetta qualcosa di inevitabile.
“E così il grande giorno è arrivato.” dico sforzandomi di sorridere.
Cassandra mi imita, ma non dice niente, sa bene quanto mi costi esordire con una frase come quella. Abbassa gli occhi verso Max, si china verso di lui, lo accarezza.
“Ciao birbante, non approfittarti della mia assenza per fare fuori la felce… mi raccomando.”
Le sfugge una risatina, stavolta sono io a imitarla, solleva il viso e mi guarda.
“Come ti senti?” mi chiede.
Triste, rassegnata. Sono una povera vittima che non può sottrarsi al suo destino. Ma a questa domanda, nessuno risponde mai in modo sincero, di solito si usa tranquillizzare chi si ha di fronte, anche a costo di mentire spudoratamente.
“Bene, bene. In fondo, non è un addio, so che tornerai, so che le nostre strade non stanno per dividersi e so anche che le cose tra noi non cambieranno… mai… vero?”
L’entusiasmo che ho cercato di mantenere è andato scemando una frase dopo l’altra, credo che la colpa sia del campanello: la ditta di traslochi è arrivata.
Cassandra si precipita verso la porta, la apre e i ragazzi entrano in casa. Sto vivendo la cosa malissimo: non sono semplici operai con la divisa scura, sembrano agenti della CIA che fanno irruzione nel nostro appartamento per portate via tutto quello che è stato catalogato in scatoloni di medie e grandi dimensioni. Afferro Max per il collare cercando di tenerlo a freno, sembra infastidito dalla loro presenza e se sapesse qual è la ragione che li ha condotti qui, probabilmente non ne risparmierebbe neanche uno.
I ragazzi hanno metodo e velocità, liberano il soggiorno in una decina di minuti, chiedono a Cassandra la conferma dell’indirizzo di destinazione, una firma e se ne vanno lasciandoci soli.
È questo il momento che temevo di più.
“Vuoi che venga ad aiutarti?” le chiedo.
“Non preoccuparti, Tommaso è a casa ad aspettarli, mi darà una mano…”
“Okay.”
Il mio accenno di risata a denti stretti non è altro che una reazione muscolare con cui cerco di trattenere le lacrime, ma quando Cassandra fa due passi verso di me, buttandomi le braccia intorno al collo, anche io mi lascio andare.
Eccolo: il lungo pianto liberatorio che avevo immaginato dall’inizio. E anche se sembra assurdo, mi sento meglio.
In quell’abbraccio sento l’amore, la tristezza, la paura. E la conferma che non serve vivere sotto lo stesso tetto per essere amiche per sempre.
“Ho amato questa casa…”
“Sarà sempre la tua casa.”
“Lo so…” mormora, asciugandosi il viso.
E poi, ci sono quelle frasi che mettono un punto, che chiudono un episodio, che qualcuno deve dire per forza. E stavolta è il mio turno.
“Ora devi andare, Tommy ti aspetta.”
Cassandra annuisce, infila il cappotto e prende la borsa. Estrae una busta e me la porge.
“Sapevo che non sarei riuscita a dirtelo a voce, non oggi almeno, così ti ho scritto due righe…”
La busta resta nella mia mano, lei si allontana e si volta verso di noi un’ultima volta, sforzandosi di sorridere.
Resto lì, in piedi, il rumore della porta che si chiude mi fa eco nella testa, guardo la busta che ho tra le mani e mi siedo.
Max deve aver intuito il mio stato d’animo, si avvicina, scodinzola, si accuccia vicino a me, quasi a volermi offrire una spalla su cui piangere, se fosse necessario. E allora prendo coraggio, la apro, prendo la lettera e comincio a leggere.

“Cara Melissa, ho pensato a lungo alle parole che avrei scelto per salutarti, ma più immaginavo il mio discorso, più mi rendevo conto che sarei riuscita a pronunciare al massimo due sillabe per volta, i singhiozzi avrebbero interrotto le parole e le parole spezzate avrebbero fatto solo confusione. Io invece, so bene cosa devo dirti e voglio scriverlo.
Ho vissuto con te a lungo e ho sempre creduto che in questo gioco delle parti, sarebbe toccato a me prendermi cura di te. Ma da quando aspetto la mia bambina, sei tu a prenderti cura di me. Dietro quella facciata fragile e insicura, si nasconde una ragazza forte, coraggiosa, determinata. La migliore delle amiche.
Me ne vado da questa casa, ma tu sarai sempre con me, ora più che mai, perché ho un bisogno disperato di te e so che mi aiuterai a essere una brava mamma.
Ti voglio bene
Cassandra.”

Qualcuno direbbe: non ci resta che piangere.

Sono passati tre giorni, e nonostante sia pronta ad ammettere che i primi due siano stati particolarmente duri, a causa delle crisi di malinconia prevedibili, oggi mi sento meglio. Ho elaborato una tattica per soffrire di meno: mi basta immaginare che sia sempre il giorno libero di Cassandra.
Il mercoledì dorme fino a tardi, non si alza a fare colazione, è sempre fuori approfittando del suo tempo libero. Se vivo in questa ottica, è tutto più semplice.
Ma non basta: la gestione della casa è totalmente sulle mie spalle. È vero: qualche settimana fa, Luca sembrava essere interessato al ‘capitolo convivenza’, ma poi non ne abbiamo più parlato, e una parte di me ha temuto che si trattasse di un’offerta dettata dalle circostanze, per mettere Britney fuori combattimento, e non voglio essere io a insistere. Se dovrà succedere, succederà. Questa è la mia casa e ho bisogno di un nuovo stile di vita che mi consenta di sfruttare la giornata al cento per cento. Ci sono così tante cose da fare, che non avrò il tempo di piangermi addosso.
Comincio da oggi e credo anche che asseconderò l’idea di iscrivermi in palestra — era la voce numero tre dei buoni propositi per il 2019.
E ora, che sono di rientro dalla mia passeggiata con Max, sarà meglio correre a prepararsi per andare al lavoro.

Avrei preferito ci fosse Giulio ad accogliermi, come tutte le mattine, ma oggi c’è Britney sulla porta e ha il viso preoccupato.
“Che c’è? Cos’è quella faccia?” le chiedo entrando.
“Abbiamo un caso abbastanza grave, vieni.”
Mi cambio alla svelta e mi dirigo nel suo ambulatorio, busso alla porta ed entro.
Sul suo tavolo c’è un gatto malconcio, non sembra ferito, ma deve aver sofferto parecchio, visto lo stato in cui si trova.
Il pelo del collo è sparito, gli occhi sono tumefatti da una brutta congiuntivite e si regge in piedi malamente. Mi avvicino e noto una piccola incisione sul suo orecchio: è una gatta di colonia.
“È una femmina, vero?”
“Sì esatto, sterilizzata, e in età geriatrica aggiungerei. È arrivata qui stamattina, l’ha portata una ragazza che dice di averla trovata sotto casa sua, e che uno degli inquilini le abbia sconsigliato di farlo. ‘È più morta che viva’ le ha detto…”
In effetti non mi sentirei di contraddirlo.
“Ha già fatto le analisi del sangue?”
“Sì, Giulio sarà qui tra poco con i risultati.”
“La ragazza cosa dice?”
“Be’, ecco, non le ho nascosto che le sue condizioni sono critiche. Dopo aver capito cosa ha scatenato l’infezione, si potrà procedere con una terapia antibiotica, ma non è detto che possa reggerla.”
“Sono d’accordo.” dico con rammarico.
“Ho suggerito una settimana di dialisi, questo potrebbe aiutarla, ma ho voluto chiarire che le cure saranno abbastanza costose…”
“Lei cosa ha detto?”
“Non le importa dei soldi, vuole vedere questa gattina fuori pericolo.”
Faccio questo lavoro da tanto tempo, è molto raro trovare persone sensibili e generose. Spesso troviamo animaletti davanti alla clinica di cui nessuno può prendersi cura, e qualche anno fa, io e gli altri soci abbiamo deciso di costituire un fondo per le emergenze, non credo che Britney ne sia al corrente.
“Tu cosa pensi? Ce la farà?” mi chiede preoccupata mentre la accarezza.
Non l’avevo mai visto così coinvolta.
Nemmeno una parola su Cassandra, sulla festa di addio al nubilato, nemmeno un accenno alla possibilità di trasferirsi a casa mia. Sembra che abbia occhi solo per questa gattina, e anche se non ho alcun tipo di garanzia che possa sopravvivere, in questo momento, posso solo farle coraggio: è questo ciò di cui ha bisogno.
“Sembra una tipa dura.” dico sorridendo.
“Ce la farà, so che ce la farà.”
“Bene, allora ti lascio con lei, fatemi sapere i valori ematici e decidiamo una terapia antibiotica con cui intervenire velocemente. Sono nel mio ambulatorio.”
“Okay.”
“Un’ultima cosa…”
“Sì.” dice mettendosi sull’attenti.
“Sei stata brava.”
Ma quello che voleva essere un complimento sentito innesca una reazione emotiva che non avevo previsto: Cristina sta piangendo.
E adesso? Che faccio? Qualcosa tipo: la abbraccio e la consolo? Io e Britney non abbiamo un rapporto così intimo, non ci sono abituata. E poi sono il suo capo, dovrei ricordarle che non farci coinvolgere fa parte del nostro dovere, dobbiamo rimanere lucidi per offrire le cure migliori. E mentre penso alla teoria, che probabilmente già conosce, mi viene da pensare che ci sia dell’altro.
“Cristina, non piangere…” dico avvicinandomi.
“Lo so, è che…”
I singhiozzi le impediscono di continuare e mentre la guardo negli occhi, capisco che il sospetto che ho avuto fin dall’inizio, ora glielo si legge in faccia.
“Sei tu la ragazza che ha portato qui questa gattina, è così?”
Abbassa lo sguardo con aria colpevole.
“Sì è così. Ma temevo che nessuno le avrebbe dato una possibilità…”
Visto lo scarso incoraggiamento dell’inquilino, un po’ la capisco.
“Siamo qui per curare gli animali… e ciò che hai fatto ti fa onore, ti prometto che avremo un occhio di riguardo, okay?”
Britney estrae un fazzoletto dalla tasca per asciugare le lacrime, annuisce, mi sembra quasi di vederla sorridere.
“A proposito: credo che dovresti darle un nome, quando la porterai a casa, le servirà.” dico strizzandole l’occhio.
Anche stavolta, la mia azione provoca una reazione: un abbraccio che sono costretta a ricambiare. E ammetto che non è poi così male.

Torno nel mio ambulatorio, ripensando a quello che è appena successo e mi dico che la vita è imprevedibile. Se quel gatto non si fosse messo sulla strada di Britney, ora non sarebbe qui. E se quel gatto non fosse qui, io non starei riflettendo sul fatto che Britney non è quel mostro che credevo che fosse. E se fosse lo stesso gatto che si è messo sulla mia strada? Quello dell’incidente? Se non fosse il fato a decidere il nostro destino, ma un gatto?
E a interrompere quelle che sembrano le considerazioni di una pazza, è una telefonata di Luca.
“Amore ciao.” dico felice.
Avevo bisogno di sentirlo, è due giorni che non lo vedo, mi manca.
“Melissa, ho un toro con le convulsioni.”
Che sia un modo carino per dirmi che ha voglia di vedermi?
Scuoto la testa, realizzando che si sta parlando di una povera bestia.
“Devi venire.”
“Sì certo, fammi organizzare un paio di cose e arrivo.”
“Stavo scherzando.” si affretta a dire ridendo. “Vieni a cena da me stasera?”
Sapevo che non si stava parlando di una povera bestia.
“Come rifiutare?” chiedo divertita.
“Voglio presentarti un paio di persone.”
“Ah… e chi sono?”
“È una sorpresa: ci vediamo stasera alle nove.”
“Aspetta. Devo sapere chi sono…”
“E perché?”
“Per il dress code.”
“Per che cosa?”
Già, lui non può saperlo: è un cowboy.
“Per capire come vestirmi.”
Mi sfugge una risata.
“Hai vinto: ci sono i miei genitori.”
“Ah. Bene. Spero di trovare qualcosa di appropriato.”
“A più tardi bellezza.”
Resto lì, con il telefono tra le mani, pensando che mi fa impazzire quando mi chiama bellezza. E poi mi viene il panico. Sto per incontrare sua madre santo cielo!
Cosa devo mettermi per conquistarla?
E se non dovessi piacerle?
Ho bisogno di Cassandra.

TRENTADUESIMO EPISODIO

Illustrazione: Valeria Terranova