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23 Feb

Arrivederci Positano

enrica alessi scrittrice

enrica alessi scrittrice

P

omodoro batte polpo dieci a zero: mi merito almeno la colazione in camera. È mattina, il raggio di sole che vedo sulle lenzuola mi strappa un sorriso. Giaco sta ancora dormendo. Se chiamassi il servizio in camera mi sentirebbe, e addio sorpresa. Devo mettermi qualcosa e scendere a fare il mio ordine di persona. Dannate idee romantiche! Ma ormai l’ho pensata così, e così deve essere. Mi vesto, esco dalla stanza, entro in ascensore. Appena le sue porte si aprono, vengo assalita da un profumo croccante di brioche. Voglio tutto. Aspetto che uno dei camerieri mi degni di uno sguardo, ma non succede. Mi rendo conto di non essere nella mia forma migliore, ma sono in ‘missione colazione in camera’ e le missioni così le assegnano solo a chi si è appena svegliato, sennò è troppo facile. Devo rimanere concentrata, o qui non si mangia. Mi avvicino al primo che passa e gli faccio gli occhi dolci, mi invento che il telefono in camera non funziona e faccio il mio ordine. Torno in camera pentendomi di non aver assecondato il mio istinto animale, e mentre mi chiedo perché non ho rubato quel cornetto al cioccolato, arrivo davanti alla stanza e non ho le chiavi. La vera domanda è: si può essere più idioti? Difficile. Busso alla porta, sento Giaco russare: la situazione si complica. Devo insistere, busso un po’ più forte: due colpi secchi e riesco a svegliarlo. Mi apre la porta, lo abbraccio – perché quando c’è l’amore non si bada neanche all’alito del mattino – ma lui si rituffa nel letto, fritto. Forse non si è accorto di niente, forse posso ancora simulare l’effetto sorpresa. Bussano alla porta, ritiro il carrello e firmo la ricevuta. Poi corro a scostare le tende, voglio che il sole invada la stanza e che siano le onde del mare a svegliare il mio amore, ma lui continua a russare. Decido di lasciarlo dormire ancora un po’ e di apparecchiare fuori: deve rimanere a bocca aperta. Mi allontano, facendo due passi indietro per controllare che tutto sia perfetto, poi mi volto verso Giaco, e mi avvicino pensando a un modo dolce di fargli aprire gli occhi.
“Amore” gli sussurro all’orecchio.
Smette di russare, io insisto.
“Amore, ho ordinato la colazione in camera, ho apparecchiato fuori…”
Mugugna e io ho i crampi dalla fame, mi sento svenire e quel che è peggio, ho pure le allucinazioni: mi sembra di sentire il rumore delle stoviglie a tavola. Un momento: chi c’è sul terrazzo? Mi precipito al balcone e vedo un gabbiano delle dimensioni di un’aquila reale che si sta mangiando la mia colazione.
“Giaco, aiuto!” grido.
Lui si sveglia di colpo e si catapulta fuori dal letto, ma quando arriva, il gabbiano è già volato via con una delle mie brioche nel becco. E mentre mi domando cosa ho fatto di male, lui scoppia in una fragorosa risata. Sono d’accordo: meglio riderci sopra e correre di sotto prima che sia troppo tardi. Fare il programma della giornata è molto più semplice a stomaco pieno. Decidiamo di fare una passeggiata in centro, prima di andare al mare, di passare dal mio negozio preferito – anche se ho visto solo quello – e di dare un’occhiata in giro. Scendiamo in paese, passando davanti alle Sirenuse, alla bottega di ceramiche, e finiamo giù per la discesa degli artisti, quella da cui sono passati anche Valentino e Jackie Kennedy, dove il cielo non si vede perché il soffitto è coperto di bouganville. Poi, la piazza della Chiesa, due lunghe gradinate e di fronte a me: un negozietto che fa sandali su misura. Ieri sera dobbiamo aver fatto una strada diversa, o me ne sarei accorta. Ma riconosco questo viottolo lungo e stretto: è quello che porta al mare, si passa da qui per arrivare al mio negozio. Giaco è accanto a me: dalla sua faccia è chiaro che non ha ancora capito dove sto per portarlo, o non starebbe sorridendo. Rallento, fingendomi interessata a una candela di citronella, e mentre la annuso, cerco di capire come sottoporre a Giaco la questione ‘regalo’.
Mi toccherà essere esplicita:
“Giaco, ammettilo: è solo merito mio se non hai più Sergio tra i piedi.”
“Certo. Ma non lo avrei mai avuto tra i piedi, se tu non lo avessi invitato a cena.”
“Uh. Che permaloso! Ancora con questa storia?” dico enfatizzando il tono divertita. “ Comunque, un piccolo regalo me lo merito. Giusto un simbolo per ricordare questo episodio divertente.”
“Divertente?” chiede Giaco contrariato.
“Giaco: se la racconti fa ridere, non puoi negarlo.” dico cercando di tenere stretta una risata.
“Quindi?”
“Un simbolo per ricordare questo episodio toccante della nostra vita? ”
“Così mi piace.”
In casi come questi, non è bene fare intendere che ti sei presa il dito, perché vuoi tutto il braccio. Deve essere una cosa graduale, quasi inconsapevole, in pratica, deve sembrare un incidente.
La mia testa mi suggerisce un: ‘toh! Guarda che carino questo negozio…’
Ma io sto parlando con Giaco e devo tirare fuori qualcosa di meglio:
“Giaco, guarda qui… ti spiace se entro?”
La mole di eleganza che viene fuori quando fingo di essere Grace Kelly, a volte mi spaventa. Faccio il mio ingresso con passo felpato e Giaco mi segue. Vicino alla fila di abiti sulla sinistra, c’è lo stesso ragazzo che ho visto ieri mattina.
“Ciao.” dico con la voce di chi è sicuro di essere riconosciuto. Ma la sua espressione è traducibile in ‘ma chi te conosce?’
“Posso dare un’occhiata?”
“Certo. Se ti interessa, nella parte lì in fondo ci sono un po’ di saldi, è tutto al cinquanta.”
E quando a una donna dici ‘saldi’, tutto il resto smette di esistere. Una possibile rivale potrebbe entrare da un momento all’altro e soffiarle l’abito che ha sempre desiderato: non può permetterlo. Chiama a raccolta tutte le sue energie e si concentra su una sola cosa: il pezzo d’occasione con un prezzo da occasione. Con un po’ di fortuna occasionale, potrei farcela. Cerco di trattenere la velocità dei passi, fingendomi discreta, e arrivo al tesoro di Willy l’Orbo. Sono eccitata come Chunk dei Goonies davanti a una Baby Root. Mi volto per controllare che Giaco possa reggere un ‘cinque minuti’ e comincio a fare una radiografia agli abiti. Di solito valuto le mie esigenze, la portabilità, e poi vado dritta nella direzione opposta, scegliendo qualcosa che non mi serve, ma che è stilosa da morire. Bianco, rosso e bluette: è una camicetta di Pucci in seta lavata.
“Quanto costa questa?” chiedo mostrando la gruccia a cui è appeso il mio oggetto del desiderio.
Il ragazzo si avvicina, guarda il cartellino, e mi sussurra il prezzo all’orecchio. Forse non si ricorda di me, ma credo di essergli simpatica: mi ha fatto un prezzo incredibile, non posso lasciarla qui.
“Posso provarla?”
“Certo qui c’è il camerino.” dice scostando le tende della stanza dietro le sue spalle, faccio un sorrisetto a Giaco prima di entrare, e poi finalmente, resto sola con lei. La indosso e mi guardo allo specchio. Devi sempre guardarti allo specchio del camerino, è indispensabile: perché gli specchi che sono fuori sono tutti inclinati e lì sembri gnocca con tutto. Meglio non farsi ingannare.  Ammetto: mi sta bene anche qui dentro. Questa camicia è un affare, se la paga Giaco è un affarone. Mi sistemo i capelli, mi ripasso il rossetto e mi passo la lingua sui denti per eliminare gli eccessi, poi, esco a farmi vedere.
“Come sto?”
“La camicia è bellissima. E la stampa è di archivio. Pucci la disegnò per le uniformi delle hostess della Braniff International Airways, nel 1976.” precisa il ragazzo. È il mio stesso anno di nascita: il destino voleva che ci incontrassimo. Queste ulteriori informazioni motivano il suo costo elevato, e Giaco deve convincersi che stiamo comprando un pezzo da collezione. ‘Stiamo’: usare il plurale è un modo per coinvolgerlo emotivamente, è necessario. Mi metto a fissarlo e dico:
“Questo pezzo di archivio meriterebbe di far parte della nostra collezione.”
“Nostra?” chiede divertito.
“Lo sai amore: quello che mio è anche tuo. La taglia è perfetta, è un oggetto unico.”
Guardami, rilassati abbandonati.
Vista da fuori sembro Giucas Casella che cerca di ipnotizzare l’ospite di ‘Domenica In’.
“Costo?” chiede Giaco svegliandosi. Ha ragione: adesso dobbiamo essere concreti. Mi avvicino e gli sussurro il prezzo all’orecchio. Per fortuna è seduto e non sviene.
“Te la regalo.” dice dandomi un bacio.
Forza Giucas. Torno in camerino, mi rivesto ed esco dal negozio con la mia camicia nella borsa. Mi fermo sulla piazza della Cambusa e guardo il mare, tutto sembra una poesia. Ma evidentemente, ogni volta che la mia positività mi invade, la nuvola di Fantozzi mi ricorda che esiste: un bambino mi urta con un gelato e spappola la sua pallina di cioccolato sopra le mie ciabattine di Zanotti. Il bambino mi guarda con odio: a causa mia deve rinunciare alla parte migliore, che ora giace sciolta sui miei piedi. La mamma si scusa. Cerco di sciacquarmi le dita attaccaticce con una bottiglietta d’acqua, mi ricompongo e riprendiamo il cammino verso la Scogliera. Alle dodici in punto sono sdraiata in posizione orizzontale con la musica nelle orecchie, ma fa un caldo pazzesco e chiedo a Giaco se ha voglia di un bagno.
L’acqua è splendida, ci tuffiamo da uno degli scogli e raggiungiamo una piccola spiaggetta. Non so come ci viene, ma ci mettiamo a simulare il salto di Dirty Dancing. Dopo trentaquattro volte, è quasi uguale all’originale. Nei secondi in cui rimango sospesa, mi sento come Baby uscita dall’angolo. Giaco ha il sole negli occhi, cerca di socchiuderli per proteggersi: ha uno sguardo così sexy. Mi allungo verso di lui per baciarlo, ma lui si accascia urlando.
“Giaco che c’è?”
“Mi hanno colpito!”
“Dove?”
“Un sasso alla schiena.”
Alzo lo sguardo per capire chi possa essere stato, e vedo lo stesso bambino del gelato. Dopo il gabbiano, questa piccola peste è la cosa peggiore che mi sia capitata oggi.
“Gennaro!” lo rimprovera la mamma, prendendolo per un braccio, “non si fa!”
Poi si volta verso di noi scusandosi di nuovo, conducendo il bimbo lontano dai sassi.
“Ti fa male?”
“Un pochino.”
“Sarà meglio metterci qualcosa di freddo.”
Torniamo ai lettini, mi faccio una doccia, mi asciugo e corro al bar da Cicchetto per farmi dare un po’ di ghiaccio. Mentre lo aspetto, mi accorgo che il tipo che sta seduto al tavolo lì vicino ha una faccia conosciuta. Cerco di studiare il suo viso nel dettaglio, senza farmi scoprire, e quando realizzo chi è, non so cosa fare. Lui è Mirco dei Bee Hive, il capellone con il ciuffo rosso, ed è nella versione in carne e ossa, senza ciuffo colorato stavolta: il Pasquale Finicelli che recitava al fianco di Cristina D’Avena. Il mio idolo da decenne. Mi sono addirittura operata di appendicite con le mutandine di Kiss me Licia: quelle con il bacio. Erano il mio porta fortuna. Cosa potrei dirgli? Magari potrei chiedergli un autografo… un momento: anche lui mi guarda, mi sento arrossire. E se mi avesse letto nel pensiero la faccenda delle mutande? Muoio dall’imbarazzo. Cicchetto mi salva porgendomi un tovagliolo in cui è avvolto un po’ di ghiaccio, lo saluto e mi allontano. Raggiungo Giaco eccitata.
“Amore, tu non sai chi ho visto al bar.”
“Chi?”
“C’è Mirco dei Bee Hive.”
“Lo hai invitato a cena?”
“Ahaha. Spiritoso: è in tournée, non può venire.”
Carichiamo i bagagli in auto, salgo e metto il cd dei Bee Hive che ho trovato nella tabaccheria del paese, sarà la nostra colonna sonora per il rientro, Giaco ancora non lo sa, si capisce da come si mette al volante: è troppo rilassato. Movimentiamo questo viaggio con un po’ di rock anni novanta. Guardo fuori dal finestrino e con aria malinconica faccio il bilancio della ‘prima vacanza estiva moglie-marito’. Mai più massaggi in spiaggia, mai più inviti a sorpresa, quando ti piace un vestito, compralo subito. A tavola prediligi il pomodoro al polpo, e quando avrai un bambino non chiamarlo Gennaro. Ciao Positano.

Illustrazione: Valeria Terranova